giovedì 14 Agosto 2025

Sfidando censura e odio per raccontare Gaza sui social: intervista a Karem “from Haifa” Rohana

Accento toscano, ma il suo cuore palestinese, Karem Rohana è scampato all’eccidio in corso a Gaza perché la sua famiglia ha avuto la possibilità, e la fortuna, di emigrare. Discendente da una famiglia di Haifa, che con la nascita di Israele ha perso tutto ed è diventata arabo-israeliana, Karem, fin da bambino, vive in Italia. E attraverso il suo profilo Instagram, “Karem From Haifa”, racconta la storia e la causa palestinese e contribuendo a diffondere la verità su quanto accade a Gaza e nei territori occupati sfidando la censura e l’odio dei supporters di Israele, al punto da aver subito anche un brutale pestaggio. L’Indipendente lo ha raggiunto per una intervista.

Leggendo la tua storia, sono rimasta colpita dalla tua doppia cittadinanza per così dire. Tu sei palestinese, ma hai un passaporto israeliano. Cosa si prova a vivere da palestinese in uno stato come quello di Israele? 

I palestinesi che vivono dentro lo Stato di Israele sono meno colpiti da violenze fisiche rispetto agli abitanti di Gaza o della Cisgiordania, (in Cisgiordania ad esempio l’Occupazione passa attraverso la militarizzazione del territorio e una violenza sistematica) ma siamo colpiti da violenze identitarie. Un palestinese che vive in Israele di fatto non può essere palestinese. Non ti puoi dichiarare palestinese, non puoi usare simboli palestinesi. Ci sono tante tradizioni palestinesi che sono state vietate per legge, come la raccolta della za’atar, una spezia che fa parte della nostra tradizione culinaria. Nel 48 Israele ha cancellato l’identità palestinese e continua a farlo tuttora. I palestinesi, inoltre, non hanno gli stessi diritti dei cittadini israeliani: ci sono cittadini di serie a e cittadini di serie b, cioè noi. 

Parlando invece di Gaza e della Cisgiordania; nel quotidiano, nella vita di tutti i giorni, come si manifesta la presenza israeliana? 

Non esiste un aspetto della tua vita in Cisgiordania o a Gaza che non sia controllato da Israele. Checkpoint disseminati lungo tutto il territorio, requisizioni di terre e proprietà che vengono poi assegnate a quelli che si definiscono «Coloni», violenze continue e perfino uccisioni. Ma tutto questo tipo di violenza non puoi neanche denunciarla. Quando dei militari assaltano il tuo villaggio, confiscando e distruggendo tutto quello che possedevi e coltivavi magari da generazioni, tu poi per ottenere giustizia dovresti rivolgerti alla polizia militare. Tribunali cioè che sono fatti di quelle persone che hanno preso di mira il tuo villaggio. E che tipo di giustizia puoi sperare di ottenere? Esistono infatti due tipi di tribunali: i tribunali civili per gli israeliani, e i tribunali militari per i palestinesi. Noi siamo l’unico posto al mondo dove i minori, anche i bambini, vengono giudicati da tribunali militari.

Mi domando come si possa vivere con la consapevolezza di non essere realmente libero, di non avere un tribunale, uno Stato, un corpo di Polizia che ti difenda… anzi, oggi essere palestinese significa vivere con la certezza che tutto ciò che conosci e ami può esserti strappato via da un momento all’altro. Qual è secondo te la cosa più preziosa di cui ti privano?  O la più dolorosa?

Soprattutto ti tolgono il «tempo». Per fare una qualsiasi cosa, dalla più importante alla più banale, ci metti ore, perché gli israeliani controllano i tuoi spostamenti. Ci sono ovunque posti di blocco. Se vieni fermato a un posto di blocco, la polizia può trattenerti per ore. O arrestarti per nessun motivo, oltre al fatto di essere palestinese. Ti pesa anche il dover convivere con l’assenza di qualsiasi punto fermo, di qualsiasi certezza. Non hai la certezza di poter andare a scuola, perché da un momento all’altro quella scuola possono demolirla per «ragioni militari». Tu stesso puoi venire ucciso, una realtà con cui ogni palestinese deve scendere a patti.

Quando si parla di Palestina e di Israele si incomincia partendo dal 7 ottobre, come se fosse una data simbolica che ha fatto da spartiacque nell’immaginario collettivo tra un «prima» e un «dopo». Tu credi sia giusto?

Il 7 ottobre fu il giorno in cui morirono per colpa di Hamas tanti israeliani, ma ci si dimentica che prima, per i palestinesi, ogni giorno poteva essere il 7 ottobre. I palestinesi morivano, ma nessuno ne parlava. Nessuno se ne interessava. Quel tipo di violenza che ha scosso l’opinione pubblica, com’è giusto che sia, era però esercitato nei confronti dei palestinesi tutti i giorni.

Nadav Weimen, il direttore dell’associazione Braeking the Silence, che raccoglie le testimonianze e i racconti di ex soldati dell’IDF che lottano contro l’Occupazione, ha raccontato di un tipo di violenza sistematica. Queste sono le sue parole: «Ogni notte mettevamo in atto un’operazione chiamata “Straw Window”. Essa consisteva in sostanza nell’impossessarsi di una casa privata palestinese e convertirla in un avamposto militare; e come lo facevamo? Assaltando letteralmente la casa nel bel mezzo della notte, trascinando tutti i membri della famiglia giù dai loro letti e confinandoli tutti in una stanza così che non potessero disturbarci. (…) Lo scopo era di far percepire la nostra presenza e di rinnovare nei palestinesi la consapevolezza di chi aveva il loro controllo.» Ecco, io mi domando: come possa una società come quella israeliana, vicina per cultura, tradizioni e filosofia all’Occidente, accettare che questo tipo di violenza e di brutalità coesista al suo interno. Tu cosa ne pensi?

La società israeliana deve ignorare certi suo aspetti, i più violenti e scabrosi, per mantenere viva l’Occupazione. Si tratta di una società che ha accettato una violenza intrinseca strutturale. Per andare avanti devono fingere di non sapere e di non vedere, o al contrario giustificare questa violenza sostenendo che tutto ciò viene fatto in nome della sicurezza. Per garantire e proteggere la «nostra sicurezza», così dicono. Ma di fatto questo tipo di violenza non fa che alimentare estremismi, odio e fenomeni di guerriglia armata; oggi c’è Hamas, ma domani chissà quanti altri ne nasceranno se non si interrompe questa spirale di violenza.

In questi ultimi anni sei stato sempre più presente sui social, fino a costruirti una comunità con migliaia e migliaia di lettori. Come ti è nata l’idea di raccontare la Palestina usando i social?

L’idea mi è nata dall’esigenza che avvertivo di parlare della Palestina, in un momento in cui nel dibattito pubblico e politico non trovava spazio. All’epoca non si poteva parlare di Palestina, era un argomento tabù. Ricordo che quando uscì il report di Amnesty International sull’apartheid palestinese, riconoscendo che quello vissuto dai palestinesi ora in Cisgiordania ora a Gaza era un vero e proprio apartheid, la politica e le istituzioni all’epoca finsero di ignorarlo. O addirittura lo censurarono. Così decisi di crearmi da solo uno spazio dove poter dar voce a tutto questo.

Proprio in questi giorni al centro del dibattito pubblico, soprattutto in Italia, vi è l’uso della parola «genocidio». Lo scrittore israeliano David Grossman ha ammesso che quello portato avanti da Israele a Gaza è un genocidio; della stessa opinione è la storica Anna Foa. Qual è la tua opinione? 

Il termine genocidio presuppone che dietro vi sia una disumanizzazione di certi gruppi etnici e quindi presuppone un’ideologia che va smantellata, perché non è compatibile con i valori umani. Se parliamo di crimini di guerra, possiamo sempre sperare di identificare e punire i colpevoli, in questo caso il governo di Netanyahu, se, invece, riconosci il genocidio, sei costretto ad ammettere che dietro c’è tutta una struttura ideologica che lo porta avanti. In questo caso la disumanizzazione del popolo palestinese.

Dopo l’annuncio di Macron e di Starmer, molti paesi europei e non, stanno discutendo della possibilità di ufficializzare il riconoscimento dello Stato di Palestina. Io, invece, mi chiedo quanto il riconoscimento tardivo della Palestina come Stato possa realmente incidere sulle sorti del popolo palestinese, in un contesto in cui il diritto internazionale, come ci insegna la Storia recente e passata, viene puntualmente calpestato. Secondo te è ancora possibile l’opzione del «due popoli, due Stati?» Oppure tu auspichi e vorresti qualcosa di diverso?

La soluzione dei due Stati a ora non è fattibile. Non è accettata nemmeno da chi la millanta. Di fatto è una narrazione che serve a legittimare la politica portata avanti da Israele, perché nel frattempo (così si giustificano i paesi occidentali) stiamo riconoscendo lo Stato palestinese. E continua a non andare alla radice del problema: uno Stato come quello di Israele basato su una supremazia etnico-religiosa non potrà mai accettare l’esistenza di uno Stato palestinese. La soluzione percorribile per me è uno Stato unico, uno Stato democratico che accolga tutti, israeliani e palestinesi, senza più fare discriminazioni. Una convivenza pacifica tra i due popoli non vuol dire dimenticare ciò che è stato, ma rispettare la terra, il posto, i diritti umani non solo di alcuni ma di tutti.

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Guendalina Middei

Nata a Roma nel 1992, fin da adolescente coltiva la sua grande passione per la letteratura russa e la cultura classica. Laureata in Lettere e con un master in Giornalismo culturale, collaboratrice di diverse riviste letterarie. Sui social la sua pagina Professor X è un punto di riferimento per oltre cinquecentomila lettori appassionati o incuriositi dalla letteratura. Autrice di diversi libri, tra questi: Clodio (Navarra, 2022), Intervista con un matto (Navarra, 2023), Innamorarsi di Anna Karenina il sabato sera (Feltrinelli, 2024) e Sopravvivere al lunedì mattina con Lolita (Feltrinelli, 2025).

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