sabato 21 Giugno 2025

Ruanda e Repubblica Democratica del Congo a un passo da uno storico accordo di pace

Washington spinge sull’acceleratore per raggiungere un accordo di pace nell’est della Repubblica Democratica del Congo (RDC). Proprio mercoledì, nella capitale USA, RDC e Ruanda hanno firmato un accordo provvisorio volto a porre fine al conflitto nella parte orientale della RDC, come si legge in una dichiarazione congiunta dei due Paesi insieme al Dipartimento di Stato americano. La bozza di accordo contiene, secondo la dichiarazione, «disposizioni sul rispetto dell’integrità territoriale e sul divieto di ostilità; disimpegno, disarmo e integrazione condizionata di gruppi armati non statali», nonché l’istituzione di «un meccanismo congiunto di coordinamento della sicurezza», che faciliti il ritorno dei rifugiati e degli sfollati interni, garantisca l’accesso umanitario e preveda «un quadro di integrazione economica regionale».

La sicurezza nella regione, inoltre, secondo quanto pattuito tra Washington e Kinshasa già ad aprile, sarà affidata a personale statunitense. Se tutto dovesse procedere secondo i piani, la prossima settimana – il 27 giugno – è prevista la firma formale e l’avvio dell’accordo tra i due Paesi africani, alla presenza del Segretario di Stato americano Marco Rubio. Rimane comunque una forte disillusione riguardo alla concreta possibilità che l’accordo venga davvero firmato e messo in atto. Infatti, negli ultimi anni – da quando nel 2021 la milizia M23, appoggiata logisticamente e finanziariamente da Kigali, ha ricominciato la sua avanzata nelle ricche regioni orientali della RDC – sono stati firmati diversi accordi, ma nessuno è mai stato attuato.

La maggior parte delle volte, le precedenti intese sono naufragate per un motivo preciso: la mancata partecipazione ai colloqui dei rappresentanti della milizia M23. Anche in questo caso, nessun uomo del gruppo paramilitare era presente al tavolo delle trattative. Anzi, solo una settimana fa, il ministro degli Esteri e della Cooperazione Internazionale ruandese, Olivier Nduhungirehe, aveva dichiarato chiaramente: «Nessun accordo di pace verrà firmato a Washington». Nel giro di cinque giorni, tuttavia, la situazione sembra essersi ribaltata, accendendo una flebile luce in fondo al tunnel. Ma a quale costo?

La pace ricercata dall’amministrazione Trump in RDC è, dall’altra parte, una dichiarazione di guerra commerciale alla Cina, per il controllo dei siti di estrazione di coltan, cobalto, litio, tantalio, rame e altri minerali strategici per la produzione di batterie elettriche. Le regioni orientali della RDC rappresentano le aree più ricche al mondo di questi materiali, e la Cina detiene, secondo Washington, l’80% delle riserve di cobalto del Paese africano. Le mire dell’amministrazione statunitense sono chiare: raggiungere la pace e assicurarsi accordi economici con entrambe le parti.

L’accordo di pace, infatti, è affiancato da intese bilaterali con Ruanda e RDC, in perfetta coerenza con la tanto sbandierata politica transazionale di Trump: non più soft power e aiuti dall’alto, ma relazioni fondate su accordi commerciali vantaggiosi. Se da una parte gli USA vogliono garantirsi accesso diretto alle risorse naturali per contrastare la supremazia cinese, dall’altra, con Kigali, Trump potrebbe negoziare un accordo sulle deportazioni dei migranti, sulla falsariga di quello tentato – e mai completato – dal Regno Unito. In sintesi: soldi e investimenti in cambio di pace e concessioni. Tuttavia, la popolazione da oltre trent’anni vive in una guerra infinita, fatta di sofferenze inimmaginabili. Mentre capi di Stato, ministri e analisti discutono del destino di milioni di persone, l’Alto Commissario per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, Volker Türk, ha dichiarato all’inizio della settimana che «la situazione in RDC sta diventando ancora più allarmante».

Un’indagine condotta dall’Ufficio per i Diritti Umani dell’ONU ha documentato violazioni gravi dei diritti umani e crimini di guerra nelle regioni orientali della RDC: arresti arbitrari, uccisioni extragiudiziali, stupri. Il rapporto evidenzia che tutti gli attori coinvolti – M23, esercito congolese, milizie locali – si sono macchiati di crimini. In un Paese dove 25 milioni di persone sono a rischio fame e quasi 8 milioni di sfollati interni vivono in condizioni disperate, una vera fine delle sofferenze non si è mai vista. Si sono viste, invece, manovre politiche finalizzate al controllo delle ricchezze del sottosuolo congolese, camuffate sotto la promessa di una pace che, per ora, resta solo sulla carta.

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Filippo Zingone

Laureato in Antropologia presso la Sapienza di Roma per poi conseguire il master in giornalismo della Fondazione Lelio e Lisli Basso. Si occupa di esteri, focalizzandosi sull’Africa subshariana e il Medio Oriente.

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