Da domenica mattina Port Sudan non è più un luogo sicuro. Dall’inizio della devastante guerra civile tra le Forze armate sudanesi e la milizia paramilitare delle Rapid Support Force (RSF), cominciata nell’aprile 2023, la città costiera era diventata la safe zone del Paese, nonché la capitale de facto. Tutti gli uffici delle Nazioni Unite, delle ONG e le istituzioni sudanesi, una volta perso il controllo della capitale da parte dell’esercito sudanese, hanno spostato i propri uffici a Port Sudan. La città è anche rifugio per centinaia di migliaia di sfollati in fuga dai combattimenti. Sulle sponde del Mar Rosso e negli aeroporti della città costiera arrivano gli aiuti alla popolazione e i beni di prima necessità, rendendo così Port Sudan l’hub umanitario del Paese. Ma se fino a domenica mattina la città sembrava un oasi in mezzo ai massacri, oggi le cose sono cambiate.
«Alle 4,30 del mattino di domenica 4 maggio si è sentita una forte esplosione, i vetri della casa dove stiamo hanno tremato» racconta a Camilla Passarotti, programme manager di Emergency, ONG presente in Sudan dal 2007 con un centro di cardiochirurgia a Khartoum e dal 2011 anche a Port Sudan con un centro pediatrico. Nella giornata di domenica sono stati colpiti «la base aerea di Osman Digna, un deposito merci e alcune strutture civili nella città di Port Sudan. Non sono state riportate vittime», ha riferito un portavoce dell’esercito. Il comandante della zona militare del Mar Rosso, il generale Mahjoub Bushra, ha affermato che «almeno 11 droni sono stati colpiti dalle forze antiaeree della città e la situazione è sotto controllo, siamo in grado di affrontare questo tipo di attacchi». Con l’aeroporto chiuso nella mattina di domenica 4 maggio, ma riaperto la sera stessa, sembrava che la situazione fosse rientrata. Tuttavia, già lunedì mattina altre esplosioni hanno tuonato nella città. Secondo quanto riporta una fonte militare che ha parlato con l’agenzia stampa Reuters, l’attacco di lunedì ha colpito dei depositi di carburante. Il ministro dell’Energia e del Petrolio, Mohiedienn Naiem Mohamed Saied, durante una visita sul luogo dell’attacco ha affermato che «questa operazione si aggiunge alla fedina penale sporca dei criminali che continuano a prendere di mira strutture civili e di servizio in Sudan. L’obiettivo è quello di sconvolgere la vita nel Paese». Dopo una notte di sbigottimento e paura, martedì mattina, Port Sudan si è risvegliata ancora al suono di diverse esplosioni che sembra abbiano colpito un altro deposito di carburante, l’aeroporto internazionale, una centrale elettrica e un hotel. La compagnia elettrica sudanese ha confermato che alcuni droni hanno colpito la principale sottostazione elettrica della città, provocando un blackout in tutta Port Sudan. Secondo quanto riportato da Al jazeera l’hotel colpito si troverebbe proprio nei pressi di alcune strutture governative tra cui la Presidential Guest House, dove il capo delle Forze armate sudanesi e presidente ad interim, Abdel Fattah al-Burhan, riceve i visitatori e ha i suoi uffici. Sebbene gli uffici umanitari e i magazzini delle Nazioni Unite a Port Sudan non siano stati colpiti il Servizio aereo umanitario delle Nazioni Unite (UNHAS) ha temporaneamente sospeso i voli da e per la città sul Mar Rosso, ha affermato il vice portavoce delle Nazioni Unite, Farhan Haq.
Le esplosioni che stanno sconvolgendo Port Sudan rappresentano un pericoloso allargamento del conflitto nella parte orientale del Paese. Anche se ancora non ci sono state rivendicazioni da parte delle RSF riguardo questi attacchi, sia le Nazioni Unite che delle organizzazioni della società civile sudanese ritengo le RSF responsabili dei bombardamenti. Gli attacchi arrivano un mese dopo la massiccia offensiva dell’esercito sudanese, che è riuscito a riconquistare una buona parte della capitale Khartoum, in mano ai paramilitari già da poche settimane dopo lo scoppio del conflitto. Bisogna però ricordare che, nonostante la perdita di importanti posizioni, le RSF mantengono un pressoché totale controllo della grande regione del Darfur nella parte occidentale del Paese e della maggior parte delle regioni del sud. Da marzo, quando le RSF hanno perso la capitale, i paramilitari hanno fatto sempre più affidamento sui droni, attaccando in profondità nel territorio controllato dall’esercito. Fino a domenica sembrava che le Forze armate sudanesi avessero il controllo del nord est mentre le RSF del sud ovest, però questi attacchi contro la città orientale di Port Sudan potrebbero portare a un cambio degli equilibri sul campo.
Proprio mentre lo scorso lunedì mattina la città costiera veniva colpita dal secondo bombardamento in meno di 24 ore, la Corte Internazionale di Giustizia ha respinto il caso presentato dal Sudan contro gli Emirati Arabi Uniti (EAU), accusati di aver violato la Convenzione ONU sul genocidio armando e finanziando le RSF, che più volte si sono macchiate di crimini di guerra e contro l’umanità. Lunedì pomeriggio la Corte ha dichiarato di essere «manifestamente priva» dell’autorità per proseguire il procedimento e ha archiviato il caso. Infatti, anche se, sia il Sudan che gli EAU hanno firmato la Convenzione sul genocidio del 1948, gli Emirati hanno una deroga sulla giurisdizione dell’Aia. Lo scorso mese, quindi, i legali degli EAU hanno sostenuto che il tribunale dell’ONU non potesse giudicare lo stato arabo. Lunedì questa obiezione è stata accolta e il caso archiviato. Il portavoce ufficiale del governo sudanese, il ministro della Cultura e dell’Informazione, Khalid Al-Aiser, sul suo profilo X ha affermato: «Se i giudici della Corte internazionale di giustizia hanno sospeso l’esame del caso per ragioni procedurali e non per ragioni sostanziali, ci sono altre corti internazionali che accettano tali casi, perseguono i criminali, rendono giustizia alle persone». Nel pomeriggio di martedì poi, a seguito di una riunione del Consiglio di sicurezza sudanese è stato deciso all’unanimità di sospendere e relazioni con gli EAU.
Con molta probabilità i droni usati per bombardare Port Sudan sono stati forniti proprio dagli Emirati, che dall’inizio del conflitto combattono una guerra per procura con la vicina Arabia Saudita, che invece sostiene l’esercito sudanese. L’oro e il petrolio rendono il Sudan un Paese in preda a una guerra fratricida, finanziata da chi vuole quelle risorse e la posizione strategica sul Mar Rosso. In due anni di conflitto sono state sfollate 13 milioni di persone e ne sono state uccise decine di migliaia. In più l’ONU ha avvisato che almeno 25 milioni di sudanesi si trovano in una condizione di grave carenza alimentare. Una situazione che non potrà che peggiorare se l’unica città sicura del Paese diventa un altro campo di battaglia.