Tutto comincia forse con una particolare accezione dell’invisibile che si presenta come prosecuzione di quella visione medievale per cui le cose sensibili sono immagini delle cose invisibili. Viene così messa in campo una speciale percezione, una speciale consapevolezza di realtà che sono simultanee. Si tratta di una concezione di stampo neoplatonico che quasi trasforma il guardare in una visione, con una sua forza creativa capace di orientare la comprensione umana: nella convinzione che tanto gli esseri incorporei quanto gli oggetti inanimati rispecchiavano gli eventi umani e potevano influenzarli.
Su questa base si viene ad affermare uno speciale statuto delle forme espressive, per cui si può dire che le parole si vedono, le icone (cioè le immagini sacre) si ascoltano. Nella versione romanzesca del film di Andrej Tarkovskij sul pittore di icone Andrej Rublëv (1992) si incontra la battuta di un monaco il quale, contemplando l’icona resa scintillante dall’olio di lino, afferma estasiato che osservandola si possono ascoltare i pensieri di quei divini personaggi.
Nella cultura russa dell’Otto e del Novecento, erede intramontabile di una concezione arcaica, fondamentale è cogliere lo speciale statuto della realtà a cominciare dalla dimensione concreta della parola. Quella parola che, ad esempio in Pavel Florenskij, è paragonata a un organismo vivente; essa non trasferisce soltanto pensieri, non raffigura soltanto oggetti e stati di cose. Nella parola, secondo Florenskij, si condensa l’energia della volontà, dell’attenzione, in generale della vita interiore dell’uomo. Lo stesso Majakowskij nella sua poesia fa rivivere l’idea che nella parola si nasconda l’atto creativo: e dunque la parola è insieme tradizione e rivoluzione, ordine e disordine, concretezza e fantasia: di conseguenza i miti e le fiabe si perpetuano nei testi e nei racconti accanto alle nuove invenzioni artistiche.
La svolta cruciale della rivoluzione bolscevica porterà molti esponenti della intelligencija ad aderire anche entusiasti ma poi a tentennare, a retrocedere per finire poi con Stalin vent’anni dopo a essere perseguitati e soccombere nei gulag.
I contributi al riguardo nella cultura russa sono innumerevoli e soltanto apparentemente contrastanti. Lo stesso Nikolaj Berdjaev, esponente di punta del cosiddetto anarchismo cristiano, sostiene, ad esempio, che in Dostoevskij le idee si incarnano in parole come «destini dell’essere, come elementari energie infuocate» e che, sul piano storico, si confrontano incessantemente un tempo divino e un tempo terreno, il dominio di Dio e quello di Cesare.
La cultura russa, insomma, come forza che gestisce conflitti e contraddizioni e che Michail Bachtin, sorprendeva nel Rinascimento a colmare e far esplodere questo conflitto di valori con il grottesco, con la irrisione del potere, che nell’opera di Rabelais, a suo parere, aveva trovato il proprio apice. Il retaggio umanistico neoplatonico va dunque ad urtare contro il realismo corporeo delle rivolte linguistiche popolaresche. Il grande linguista Roman Jakobson, con il suo collega etnografo Pëtr Bogatyrëv giravano curiosi ed entusiasti nei mercati popolari, ai tempi della Rivoluzione, per cogliere le urla dei mercanti ma poi Jakobson si gettava ad analizzare con passione e competenza i grandi poeti.
In ultima analisi, la parola va sottratta ai suoi automatismi, al suo essenziale ma riduttivo compito di comunicare e deve diventare una dea alata, come quelle didascalie che nelle icone contrassegnavano i santi, la Madonna e il Signore non come figure di una composizione ma come parvenze espressive, parole della Parola, immagini libere da qualsiasi destino predeterminato.




