Il risultato delle elezioni svoltesi ieri, domenica 14 dicembre, ha visto definitivamente tramontare la possibilità del Cile di vedere realizzata la svolta socialista promessa cinque anni fa dall’uscente Gabriel Boric e di vedere in carica la prima presidente comunista del Paese. A vincere il ballottaggio per le presidenziali, con ampio margine, è stato infatti José Antonio Kast: 59 anni, membro del Partito Repubblicano del Cile, figlio di un nazista rifugiatosi nel Paese dopo la seconda guerra mondiale e sostenitore di Pinochet, la sua campagna politica ha fatto interamente perno sul tema della sicurezza sociale e dell’appoggio alle forze armate e di polizia. Con lui, in Cile sale in carica il governo più di destra dalla fine della dittatura.
Il Paese è ormai lontano dal 2019, quando la rabbia popolare scosse il Paese con un’ondata di proteste senza precedenti, divenute note con il nome estallido social. Al centro delle contestazioni vi era il governo conservatore e corrotto dell’ex presidente Sebastián Piñera (già ministro del Lavoro durante la dittatura Pinochet): repressione e rimpasti di governo non riuscirono a domare il popolo, che meno di due anni dopo scelse come proprio presidente Gabriel Boric, 32enne proveniente dall’estremo sud patagonico protagonista a capo delle rivolte studentesche del 2011 e in prima linea durante l’estallido social. Con Boric, che promise un Paese di orientamento socialista, il Cile aveva potuto sperare in un futuro di giustizia sociale, dove non fossero gli interessi privati a farla da padrone. E proprio il “tradimento” di Boric, secondo molti, è stato un fattore determinante nel consegnare il Paese all’ultradestra. Se alcuni dei punti chiave del suo programma sono rimasti irrealizzati anche grazie al massiccio sforzo dei fondi privati, come la modifica alla Costituzione (che mirava a sostituire quella attuale, redatta durante la dittatura di Pinochet), molti altri sono rimasti in sospeso, mentre venivano approvati provvedimenti di matrice fortemente di destra, come la controferma legge Nain-Retamal, che punta a garantire un maggior grado di impunità alle forze di polizia. Le poche vittorie ottenute dal suo governo, come la riduzione dell’orario di lavoro e l’aumento del salario minimo interprofessionale, non sono servite a far guadagnare a Jara (ex ministra del Lavoro sotto il governo Boric) la maggioranza delle preferenze. Nonostante Boric avesse inoltre promesso il riconoscimento e la tutela delle popolazioni native, minacciate in Cile dagli interessi finanziari delle aziende, queste sono forse le maggiormente deluse dal suo operato. Nella Macrozona Sur (regione del Paese a sud di Santiago), dove il popolo mapuche è in lotta contro Stato e aziende che ogni giorno si impossessano illegalmente delle loro terre, lo Stato di emergenza introdotto da Piñera è infatti stato prolungato per tutto il periodo della presidenza Boric e ora rischia di dover fare i conti con un ulteriore peggioramento della repressione.
Dal canto suo, Kast ha fatto della minaccia dell’insicurezza sociale il perno della propria campagna politica, dominata da promesse di lotta alla criminalità e alla migrazione illegale. Chiusura delle frontiere, espulsione indiscriminata dei migranti «illegali», costruzione di nuove carceri ad alta sicurezza e l’utilizzo della tecnologia per perseguire il crimine, oltre a un totale e indiscusso appoggio a polizia e forze armate sono punti chiave del suo discorso politico che hanno dominato il dibattito in queste settimane – usato sapientemente per sviare domande scomode, come quelle riguardanti i programmi per la ripresa economica del Cile e l’impiego delle finanze statali. A questi si aggiunge la promessa di contrastare il «terrorismo» nella Macrozona Sur. E nel contesto di un Paese dove a muovere le fila sono pochi grandi gruppi economici, il programma di Jeannette Jara non è bastato a risvegliare nei cileni quella scintilla di speranza e fiducia nel cambiamento accesa dalle proteste di sei anni fa. Se da un lato il suo partito non prendeva parte alla corsa per le presidenziali dai tempi di Allende, è anche vero che questo poco ha saputo fare per guadagnarsi la fiducia dell’elettorato.
Fatto sta che il senso di disillusione nel Paese era palpabile già nelle settimane, se non nei mesi che hanno preceduto le elezioni. Buona parte della popolazione ritiene infatti che la bandiera con la quale si avvolge il presidente faccia poca differenza, in un Paese dove le oligarchie determinano l’esito delle politiche statali e sociali. Anche Jara, per convincere gli indecisi a votare per lei, aveva dovuto fare propria una retorica che puntava sulla sicurezza, sul controllo tecnologico delle frontiere e sul controllo della migrazione, un programma elettorale certo molto distante da uno che possa dirsi comunista, quantomeno in senso classico.




