RAMALLAH, PALESTINA OCCUPATA – Sono almeno 2200 i corpi palestinesi che sono trattenuti da Israele: 762 cadaveri rubati all’interno della Cisgiordania occupata, circa 1500 sottratti alle famiglie di Gaza. Nelle politiche brutali condotte da Israele anche i corpi dei palestinesi morti diventano e il loro sequestro si trasforma in una ulteriore forma di tortura e di “punizione collettiva” per le famiglie palestinesi. Molti sono tenuti nei famosi “cimiteri dei numeri”, distese di terra senza lapide e senza nome. Solo una placca di metallo con un numero sopra, piantata nella nuda terra. Questi cimiteri sono zone militari, nessuno vi può accedere. Distribuiti tra i dintorni di Gerico, il deserto del Negev e le alture del Golan, sono sei quelli di cui si è a conoscenza. Gli altri cadaveri sono trattenuti in celle frigorifere nell’Abu Kabir Forense Institute di Tel Aviv, altri ancora in container refrigerati fuori dal centro di detenzione di Sde Teiman. «È dal 1967 che Israele sequestra sistematicamente i corpi di palestinesi che ha ucciso» dice a L’Indipendente il dott. Hussein Shejaeya, membro di Jlac, una organizzazione umanitaria palestinese che dal 2008 ha attivato una campagna per la restituzione dei corpi trattenuti dalle autorità israeliane.
«Una pratica che utilizzano dall’inizio dell’occupazione, gradualmente istituzionalizzata e integrata nella legislazione israeliana». Jlac si occupa dei 762 corpi dei palestinesi uccisi in Cisgiordania; di tutti gli altri non ha, di fatto, nessuna notizia. Il sequestro dei corpi è una pratica coloniale antica, che i palestinesi hanno sofferto anche durante l’occupazione britannica. La campagna di Jlac, attiva da 18 anni, è riuscita a liberare 121 corpi dai cimiteri dei numeri e circa 300 dalle celle frigo. «La prima vittoria è stata il ritorno del corpo di Mashhoor Al-Arouri, il cui corpo era trattenuto da 34 anni da Israele», specifica Shaiaeya. Dei cadaveri trattenuti su cui Jlac ha informazioni, 75 sono corpi di bambini, 89 di prigionieri morti in carcere, e 10 di donne.
La necropolitica israeliana, uno strumento di oppressione

Il sequestro dei corpi fa parte di ciò che gli studiosi descrivono come necropolitica: l’uso della morte come mezzo di potere e dominio. Negando ai palestinesi il diritto di piangere apertamente i propri morti, l’occupazione israeliana controlla anche le espressioni più intime del lutto. Il rifiuto di Israele di restituire i corpi è un’estensione sistematica del dominio coloniale, che punisce i palestinesi due volte: nella vita e nella morte. Trasformando i cadaveri in merce di scambio e negando alle famiglie il diritto di piangere i propri cari, Israele cerca di cancellare la memoria e controllare i rituali sacri.
Sebbene una direttiva del 2004 abbia limitato brevemente questa politica, essa è stata ripristinata nel 2015 con il pretesto del regolamento 133(3) del Mandato britannico. Nel 2017, la Corte Suprema ha stabilito che gli organismi di trattenuta non avevano base giuridica, ma ha sospeso la sua decisione, dando al governo il tempo di legiferare. La Knesset ha risposto con un emendamento del 2018 alla cosiddetta “legge antiterrorismo”, autorizzando esplicitamente la pratica. Nel 2019, la Corte ha ribaltato la propria decisione, consentendo la trattenuta per “negoziazione” – ossia come merce di scambio – se il defunto era affiliato ad Hamas o aveva commesso un’“operazione significativa”. Nel 2020 la politica è stata estesa a tutti i palestinesi accusati di presunti attacchi. Queste condizioni, comunque – conferma Shajaeya – non si applicano a molti dei martiri i cui corpi rimangono trattenuti. «Dal 2019», dice, «sembra semplicemente che prelevino i cadaveri di quasi tutti quelli che riescono.»

«Il sequestro dei corpi è un ulteriore forma per controllarci, oltre i cancelli, i muri, le prigioni, le demolizioni delle case etc. Il messaggio, è chiaro: chiunque faccia qualcosa contro Israele verrà ucciso e il suo corpo diventerà un numero, diventerà nulla», continua Shajaeya. Sono almeno 470 i corpi trattenuti dal 2015, dati che mostrano un incremento della pratica negli ultimi anni. In alcuni casi, l’esercito israeliano ha anche fatto irruzione negli ospedali in Cisgiordania dove i cadaveri dei martiri erano tenuti in attesa del funerale e li ha portati via. «Inoltre, seppelliscono i corpi contro ogni diritto umano», dice ancora Shejaeya. «Nei cimiteri li sotterrano a pochi centimetri sotto la superficie, facilmente prede di animali o delle piogge invernali. Nei frighi li mettono a temperature bassissime: se normalmente un corpo dovrebbe stare a – 6/10°, nelle celle frigo d’Israele i palestinesi sono tenuti a -30°». Quando le famiglie ottengono di recuperare i resti dei propri cari, i cadaveri sono in condizioni terribili, o congelati così solidamente che bisogna aspettare giorni per farli scongelare; in molti casi le autopsie sono impossibili da fare, rendendo difficile perfino la determinazione della causa di morte.
«Anche quando le famiglie ottengono indietro il corpo del proprio caro, Israele impone delle condizioni punitive per il funerale. Il rituale funebre deve avvenire di notte, in meno di 22/25 persone. Non sono ammesse foto né video. E la famiglia deve pagare una tassa agli stessi israeliani». A Gerusalemme, specifica, «vengono dati dei braccialetti per le 22 persone a cui è permesso di partecipare al funerale, affinché il numero possa essere tenuto sotto controllo sia dai droni – spesso utilizzati in queste occasioni – sia dalle guardie all’ingesso del cimitero». Una ulteriore forma di vendetta verso le famiglie che dopo anni di attesa non possono nemmeno celebrare il rito funebre come impone la tradizione. «I corpi dei palestinesi sono come degli ostaggi. Vengono utilizzati negli scambi. Ad oggi, tutta l’attenzione è focalizzata sul corpo dell’ultimo israeliano a Gaza, ma nessuno parla degli almeno 2000 corpi dei palestinesi trattenuti da Israele.» I quali, sottolinea, potrebbero essere molti di più. Non si hanno numeri precisi dei cadaveri rubati nella Striscia: le uniche informazioni arrivano dai canali israeliani, che parlano di 1500 corpi trattenuti a Sde Teiman. Anche i corpi di almeno un canadese, un americano-marocchino, un giordano e due libanesi risultano trattenuti in Israele.
Le famiglie dei martiri sono state in prima linea, protestando nelle strade e insistendo sul diritto di seppellire i propri figli. Le loro voci mettono in luce la posta in gioco personale e collettiva di questa lotta: la pace per i familiari in lutto, la dignità per i defunti e la conservazione della memoria per la comunità. La campagna di Jlac insiste sul fatto che questa questione non è marginale, ma centrale per la resistenza palestinese contro la pulizia etnica.
La paura del furto di organi dai corpi-ostaggio
Un’altra delle questioni che affligge le famiglie dei martiri riguarda gli organi rubati: non ci sono prove forensi che negli ultimi due decenni Israele abbia sottratto organi o pelle dai corpi dei palestinesi in Cisgiordania, ma la questione rimane aperta, anche proprio per la difficoltà a volte di effettuare autopsie. È provato che il furto di pelle, cornee, e organi interni fosse una pratica consolidata nell’Abu Kabir Forense Institute di Tel Aviv almeno fino quando è esploso il caso mediatico che metteva la luce sul traffico di organi in Israele. Erano decenni che le famiglie palestinesi denunciavano chiari segni di espiantazione di organi dai corpi di alcuni martiri restituiti, ma i casi sono rimasti inascoltati fino all’inchiesta portata avanti dall’antropologa americana Scheper-Hughes e poi dal giornalista svedese Donald Boström. Fu lo stesso direttore dell’istituto di Abu Kabir, il Dr. Yehuda Hiss, ad ammettere i furti sistematici di organi in un’intervista con l’antropologa nel 2000, e poi nel 2005 nell’inchiesta successivamente aperta dalla polizia. I furti ai corpi – le cui parti venivano rivendute in istituti di ricerca, all’esercito, e ad acquirenti in tutto il mondo – venivano effettuati anche su israeliani deceduti, ma probabilmente in misura minore, data la facilità di accesso ai corpi dei palestinesi e al fatto che nessuno avrebbe creduto alle loro denunce. «Bisogna ricordare che Israele detiene la banca di pelle più grande al mondo», ricorda Hussein Shejaeya.

Oggi è il chirurgo britannico-palestinese Dr. Ghassan Abu Sitta, insieme ad altri medici, a denunciare la rimozione sistematica di organi dai corpi restituiti recentemente dei palestinesi uccisi a Gaza. Abu Sitta descrive «prove di un furto sistematico di organi», indicando come molti dei cadaveri presentano cuori, polmoni, reni e cornee mancanti, con tagli chirurgici e punti di sutura dal torace all’addome, incisioni realizzate con seghe mediche e tracce di sostanze chimiche conservanti sulla pelle. Per Abu Sitta si tratta di segni inequivocabili di estrazioni professionali per trapianti avvenuti sotto la supervisione di medici israeliani.
A seguito dei rapporti di professionisti medici che a Gaza hanno esaminato alcuni corpi, il gruppo per i diritti umani Euro-Med Human Rights Monitor ha chiesto l’apertura di una indagine internazionale indipendente. L’ONG ha anche documentato le forze israeliane mentre riesumano e confiscano decine di cadaveri dagli ospedali della Striscia di Gaza, tra cui quello di Al-Shifa. Il problema, confermato dagli stessi medici palestinesi, è che il furto di organi non può essere dimostrato o confutato esclusivamente da visite mediche forensi, poiché più corpi sono stati sottoposti a procedure chirurgiche prima della morte e molti di quelli restituiti sono in pessime condizioni. Ma sono diversi i segni che portano a pensare a un possibile furto di organi da parte dell’esercito israeliano, per la quale è necessario indagare più a fondo.
Questi dati non fanno che aumentare le paure delle famiglie palestinesi, che temono che i corpi dei loro cari vengano abusati per gli interessi economici d’Israele. Contro, ancora una volta, tutti i trattati internazionali sui diritti umani. E contro l’umanità stessa.




