L’infanzia non è irreversibile. L’aurora della vita si può ripresentare ogni giorno nel ciclo stesso di ogni giornata, come una rinascita. Questo avviene, ad esempio, se decidiamo di tornare a scuola, se cioè ci prendiamo del tempo e assumiamo l’atteggiamento dello stupore che porta a un insegnamento continuo, a un ricominciare a imparare qualcosa di nuovo, senza porci il problema che rappresenti sempre una conferma – questa sì che è vecchiaia, una vecchiaia non anagrafica ma ideologica, che riduce i margini delle nostre espressioni, che ci fa sentire inadatti, prigionieri dello stress di aderire sempre a ciò che ci viene proposto o imposto.
La curiosità che ne può scaturire sta su due fronti: una curiosità oggettiva, verso le cose, verso tutto ciò che abita il mondo e una curiosità soggettiva, quella ad esempio che il bambino, l’essere bambino, il sentirsi bambino attira verso di sé come portatore di una logica differente dall’adesione automatica ai luoghi comuni.
Il bambino allora catalizza l’interesse degli altri che gli riconoscono una identità, un modo stupefatto di vedere le cose, di insegnarci un linguaggio che ha una sua logica imprendibile ma generosa. Un bambino che prende sul serio la realtà perché gioca, la smonta e ne esce per poi ricominciare a esplorare.
Partiamo dall’idea che il bambino non deve diventare qualcun altro. Altrimenti finirebbe come Pinocchio, che dopo aver attraversato le vicende più straordinariamente simboliche, aver incontrato i personaggi più strampalati e quelli più saggi, si trasforma irreversibilmente da burattino di legno a “burattino” in carne e ossa, perché deve gettare via se stesso come nel finale della storia di Collodi, quando Geppetto mostra al Pinocchio, diventato “buono” e “ragazzino perbene”, quella sua “buffa”, legnosa identità di prima, appoggiata a una seggiola. Ha osservato acutamente Giorgio Manganelli che Pinocchio, in realtà, «non sarebbe mai più stato né burattino né ragazzo. Pinocchio ritrova la felicità dinamica della puerizia, la sua vocazione ad iniziare».
Grande tema l’infanzia, tema filosofico, esistenziale che ci interroga sull’essere, e sul restare, umani in un mondo che impone passaggi come prove di inevitabile crescita, quasi di guarigione da quella condizione immaginifica, aperta all’imprevedibile che dovrebbe essere l’infanzia, quale condizione per scoprire e insieme immaginare: tenendo sempre, costantemente collegati questi due orizzonti.
Alessandro Gaudio ha scritto un libro che rappresenta anche una guida originale e importante su questi argomenti (Elogio dell’infanzia, Algra Editore 2025), incrociando le esperienze della soggettività tra apprendimento e lettura, mediante la letteratura ma nel superamento stesso del linguaggio. Il suo libro mi ha ricollegato a Wittgenstein e Popper maestri di scuola, a quella riforma scolastica nell’Austria di cent’anni fa, ispirata alla psicologia di Karl Bühler, che voleva andare contro l’idea di una scuola primaria diretta a formare piccoli uomini “delle classi lavoratrici del popolo, pii, buoni, docili e industriosi”. Andar contro per dare invece valore, nell’apprendimento, a fattori quali il contesto, il punto di vista, la reciprocità.
«Viaggiare fino all’isola remota e marginale dell’infanzia – scrive Gaudio – significa tentare di mantenersi in quello stato di assoluta libertà, staccarsi dal tempo in cui viviamo», attivare i contro-codici della memoria e della immaginazione, superando la repressione della fantasia che vorrebbe impedire qualsiasi legame «tra infanzia ed espressione artistica, tra infanzia e poesia». Anche per interrompere la catena distruttiva dell’istruzione permanente e di una obbediente pedagogia degli adulti.




