sabato 13 Dicembre 2025

“Troppi errori”: Nature ritira lo studio catastrofista sui costi dei cambiamenti climatici

Uno studio scientifico, secondo cui il cambiamento climatico costerebbe 38 trilioni di dollari all’anno entro il 2049, è stato ritirato in seguito a due commenti diffusi ad agosto sulla qualità dei dati e sulla metodologia adottata. The economic commitment of climate change, pubblicato il 17 aprile 2024 su Nature, analizzava l’impatto delle variazioni di temperatura e precipitazioni sulla crescita economica globale. Sotto accusa per aver sovrastimato gli effetti economici del cambiamento climatico, i ricercatori del Potsdam Institute for Climate Impact Research (PIK) hanno ammesso gli errori, aggiungendo che le modifiche sono «troppo sostanziali per una correzione» per una semplice rettifica, portando alla ritrattazione dell’articolo. Una decisione che comporta anche una botta alla reputazione dell’antica rivista scientifica britannica, affossando uno lavoro che è stato citato ben 168 volte e consultato oltre 300mila volte, ripreso da media, analisti finanziari e documenti sul rischio climatico, inclusi quelli di alcune banche centrali per giustificare politiche green.

Il lavoro, firmato da Maximilian Kotz, Leonie Wenz e Anders Levermann, si inseriva nel filone dell’economia climatica empirica, che tenta di quantificare l’impatto diretto delle variabili climatiche sulla crescita del PIL. Utilizzando dati storici su temperatura, precipitazioni e reddito pro capite di oltre 1.600 regioni nel mondo, lo studio applicava modelli econometrici non lineari per stimare come deviazioni climatiche persistenti influenzino la produttività economica. La tesi centrale era che una quota consistente dei danni futuri fosse già “incorporata” nel sistema economico, a causa delle emissioni passate, anche in scenari di rapida mitigazione. Da qui la cifra shock: 38 trilioni di dollari di perdite annue entro metà secolo, pari a circa il 19% del reddito globale. Si tratta di una delle stime più elevate mai apparse su una rivista scientifica generalista.

Le prime contestazioni sono emerse pochi mesi dopo, sotto forma di commenti tecnici (“Matters Arising”) pubblicati su Nature. I critici hanno individuato da subito problemi specifici: anomalie nei dati economici di alcuni Paesi – in particolare una serie storica dell’Uzbekistan tra gli anni Novanta e Duemila – che, per via della struttura del modello, esercitavano un peso sproporzionato sulle stime globali. Altri rilievi riguardavano la gestione dell’incertezza statistica, giudicata insufficiente rispetto all’ampiezza delle conclusioni. Secondo i commentatori, correggere quei problemi riduceva drasticamente l’entità dei danni stimati e ampliava gli intervalli di confidenza, rendendo le cifre headline molto meno solide. Dopo una rianalisi interna e la pubblicazione di una versione rivista come preprint, gli stessi autori hanno riconosciuto che le modifiche non erano compatibili con una semplice correzione, portando al ritiro completo dell’articolo. È il sesto articolo ritirato dalla rivista Nature quest’anno, dal 27 gennaio a oggi. Le ritrattazioni non rappresentano di per sé un fallimento del procedimento scientifico, ma uno dei suoi meccanismi fondamentali di autocorrezione. Il problema emerge quando studi ancora provvisori o metodologicamente fragili vengono rapidamente trasformati in strumenti di legittimazione politica, regolatoria o finanziaria, prima che il dibattito scientifico abbia fatto il suo corso. In questi casi, il danno non riguarda solo la qualità della ricerca, ma anche la fiducia del pubblico nelle istituzioni scientifiche.

La decisione di Nature di ritirare l’articolo ha avuto un’eco amplificata sui social media, dove molti utenti hanno bollato i ricercatori come “corrotti”, e utilizzato il caso per bollare l’intero cambiamento climatico come una “truffa politica”. Tuttavia, la ritrattazione di The economic commitment of climate change non dimostra che l’intera scienza del clima sia una farsa né che i danni economici del riscaldamento globale siano inventati, evidenzia semmai la necessità di distinguere tra ricerca scientifica, narrazione mediatica e uso politico dei risultati. Al di là del dibattito sulle origini antopriche o meno, la letteratura scientifica sull’impatto del “cambiamento climatico” su ecosistemi, agricoltura, salute umana e sistemi socio-economici comprende migliaia di studi indipendenti, modelli fisici, osservazioni satellitari e valutazioni interdisciplinari, che non dipendono da un singolo articolo. Detto ciò, stime estreme, se comunicate senza l’adeguata cautela metodologica, possono alimentare sensazionalismo e allarmismo, portando a strumentalizzazioni ideologiche, a maggior ragione su temi così controversi e divisivi. La lezione non è quella di screditare la scienza, ma di ricordarne i limiti e le responsabilità, in un periodo in cui essa, invece, è finita per assurgere a culto infallibile. Tra modelli complessi, incertezze statistiche e decisioni pubbliche esiste un passaggio delicato che richiede rigore, trasparenza e sobrietà comunicativa.

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Enrica Perucchietti

Laureata con lode in Filosofia, vive e lavora a Torino come giornalista, scrittrice ed editor. Collabora con diverse testate e canali di informazione indipendente. È autrice di numerosi saggi di successo. Per L’Indipendente cura la rubrica Anti fakenews.

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