giovedì 11 Dicembre 2025

Siria: il Paese che lotta per ricomporsi

Un anno fa mettevo piede in Siria per la prima volta. Il regime di Assad era crollato da pochi giorni e il Paese era ancora ubriaco di incredulità. Gli agenti di frontiera ci accolsero con un «Siria libera!», gridato più con il petto che con la voce, e in un piccolo negozio di gelato vidi persone cantare e ballare come se, per la prima volta, ci si potesse davvero credere. Era un’euforia fragile, quasi surreale: la sensazione di un popolo che si sveglia e controlla se la gabbia è davvero aperta. Poi, lentamente, l’entusiasmo si è ritirato come fa la marea, lasciando scoperta la domanda che mi avrebbe accompagnata per mesi: come può sollevarsi un Paese così frammentato, sanzionato, in pieno collasso economico, che festeggia la fine della guerra ma rinasce con a capo un ex jihadista?

Ahmed al-Sharaa, oggi alla guida del Governo di Transizione Nazionale, ha una missione dichiarata: ricucire ciò che la guerra ha lacerato. Promette elezioni pienamente democratiche entro quattro o cinque anni, il tempo necessario per ricostruire anagrafe, tribunali, sicurezza e servizi essenziali: le fondamenta minime senza le quali una democrazia resterebbe solo un manifesto.

Le prime elezioni parlamentari della transizione, tenute questo ottobre, sono state un assaggio di cosa potrebbe essere il futuro. Con qualche problema, certo: non tutte le regioni erano coinvolte e un terzo dei seggi è stato nominato direttamente dalla presidenza. Eppure quel giorno molte persone hanno fatto ore di fila davanti a seggi improvvisati, in scuole senza porte e in uffici rattoppati, solo per mettere una croce su una scheda. Non era la perfezione, ma è stato un inizio. Il problema è che le elezioni, da sole, non uniscono un Paese. La Siria oggi è un mosaico separato in diversi pezzi: a nord e nord-ovest resistono gruppi armati e amministrazioni locali; a nord-est i curdi gestiscono un proprio sistema politico-amministrativo; a est le milizie filo-iraniane rimangono radicate. Intorno, gli attori esterni si muovono come se la guerra non fosse mai finita: la Turchia controlla porzioni del nord considerate vitali per la propria sicurezza; l’Iran consolida posizioni; Israele continua i raid contro obiettivi dei Pasdaran; gli Stati Uniti presidiano il nord-est; la Russia mantiene le sue basi. È un intreccio di interessi che paralizza qualsiasi tentativo di ricomporre il Paese. E oltre a tutto questo c’è una minaccia ancora più concreta, silenziosa e devastante: la povertà.

Dopo tredici anni di bombardamenti, con il 90% della popolazione che vive con meno di 2 dollari al giorno e città da rimettere in piedi mattone per mattone, l’economia non è davvero ripartita. Le sanzioni – pensate per colpire Assad e i suoi alleati – restano in gran parte in vigore. Bruxelles continua a rinnovarle quasi integralmente, aggiungendo esenzioni umanitarie che sulla carta dovrebbero semplificare, ma che, nella pratica, creano procedure ambigue e rallentamenti continui. Negli Stati Uniti la sospensione varata da Trump è solo temporanea, e l’incertezza pesa come un macigno. Il risultato è che molti investitori evitano qualsiasi transazione collegata alla Siria. Non rischiano perché potrebbero vedersi i fondi bloccati, i progetti interrotti, o indagini sul rispetto del regime sanzionatorio. È così che un Paese che prova a ripartire si trova le mani legate dietro la schiena. L’importazione di macchinari essenziali per spostare macerie, ricostruire case, centrali elettriche e strade è spesso impossibile: bulldozer e pompe industriali restano fermi ai confini perché le banche straniere non vogliono gestire pagamenti verso la Siria. Nelle campagne, gli agricoltori non riescono a sostituire trattori e impianti d’irrigazione. Perfino la vita digitale quotidiana è limitata: vari servizi online e prodotti Google restano inaccessibili, lasciando cittadini e piccole imprese tagliati fuori da strumenti di lavoro ormai essenziali.
Nonostante tutto, la Siria sorprende ancora. Tra gennaio e giugno 2025 più di due milioni di persone sono tornate nelle proprie città. Tra loro, 600mila rifugiati rientrati dall’estero. Tornano in case a metà, quartieri senza acqua, luci, ospedali; tornano sapendo che troveranno più macerie che certezze. Eppure tornano. È un gesto di resistenza, un atto politico ancora prima che personale: ricostruire la propria Patria. Alla fine, la domanda che mi portavo dentro ha trovato una forma, se non una risposta. La Siria non tornerà ciò che era. Diventerà qualcosa di nuovo. Qualcosa che sta cercando di nascere nel modo più difficile: tra frammentazione, pressioni esterne, sanzioni che soffocano e una popolazione che continua a ricostruire pezzo dopo pezzo. Il minimo che possiamo fare è non intralciarli, e rimuovere le sanzioni. 

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Still I Rise

Still I Rise è un’organizzazione no-profit internazionale, che offre istruzione di eccellenza ai bambini profughi e vulnerabili in vari Paesi, con l’obiettivo di porre fine alla crisi scolastica globale. Completamente indipendente, Still I Rise è stata fondata nel 2018 ed è guidata da Nicolò Govoni.

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