Dodici anni di reclusione per Anan Yaeesh, nove per Alì Irar e sette per Mansour Dogmosh. Queste le richieste del pubblico ministero Roberta D’Avolio per i tre palestinesi a processo a L’Aquila, accusati di associazione a delinquere con finalità di terrorismo per fatti accaduti in Cisgiordania occupata. Alla sbarra, di fatto, non ci sono solo tre uomini, ma la stessa resistenza palestinese, che lo Stato italiano vorrebbe seppellire con quasi trent’anni di carcere cumulativi. I tre palestinesi sono accusati di aver promosso dall’Italia il Gruppo di Risposta Rapida, una delle brigate armate che cercano di resistere all’occupazione israeliana nella città di Tulkarem, territorio martoriato dall’esercito di Tel Aviv e i cui campi profughi sono chiamati “le piccole Gaza” per l’enorme livello di devastazione subita. Ma della realtà che soffrono i palestinesi ogni giorno non si parla in Tribunale. «Hanno escluso tutti gli elementi di contesto», dichiara l’avvocato difensore Flavio Rossi Albertini a L’Indipendente. «L’occupazione della Cisgiordania, i circa 800mila coloni che occupano illegalmente il territorio, le violazioni israeliane provate dalla Corte Internazionale di Giustizia». Su questo, c’è il silenzio. «Eppure il diritto e le convenzioni internazionali assicurano il diritto all’autodifesa, anche armata, di un popolo contro un esercito occupante».
«Stiamo parlando di un processo in cui tutti i ragazzi di Tulkarem in contatto con Anan sono stati sistematicamente assassinati da Israele. Spesso nel corso di esecuzioni extragiudiziali, non in conflitti a fuoco», continua Rossi Albertini. «L’assurdità delle richieste è facilmente comprensibile se paragonate al processo in cui è stato condannato Anan in Cisgiordania dalla Corte Marziale israeliana occupante per i fatti commessi nella Seconda Intifada», ha spiegato l’avvocato. «In quel caso Anan è stato condannato a tre anni e 10 mesi di reclusione e cinque anni di libertà vigilata. Ora, per fatti certamente meno gravi, il PM dell’Aquila ha chiesto una condanna a 12 anni di reclusione. Tra l’altro eludendo tutto il contesto nel quale sarebbero maturati i fatti».
«La PM ha richiesto pene sproporzionate, individuandole in prossimità dei massimi edittali quando, quantomeno per Ali e Mansuor, non si sa neppure quale sia realmente il ruolo che avrebbero rivestito nella brigata e quindi la loro condotta partecipativa». Infatti, contro questi ultimi, le uniche attività provate sono il legame di amicizia con Anan e l’interesse per la tragedia del popolo palestinese. La visione di video, messaggi, foto, commenti tra ragazzi palestinesi vengono criminalizzati; attività e interessi comuni a tutti i giovani della diaspora palestinese, e non solo a loro, che dall’estero guardavano esterrefatti al genocidio compiuto a Gaza, vengono ricondotte a reato. Nessuna azione concreta risulta compiuta. «I fatti sulla quale si richiede la condanna di questi due imputati sono gli stessi che avevano portato la Cassazione a rilasciarli a settembre dell’anno scorso». Il processo è politico e ogni sua fase ha esplicitato e messo in evidenza la stretta alleanza e condivisione di obiettivi tra lo Stato d’Israele e quello italiano.
«L’Autorità italiana si è sostituita a Israele», continua Rossi Albertini. «Pur di mantenerlo in carcere, quando è stata negata l’estradizione, ha imbastito un processo posticcio, con la pretesa di conoscere e giudicare dall’Aquila fatti avvenuti in Cisgiordania». La concatenazione degli eventi, dice, «fa oggettivamente pensare che ci sia stato un interesse del nostro Paese ad assecondare le necessità israeliane. A tre mesi dall’inizio del genocidio – gennaio 2024 – sembra che Israele abbia voluto fermare sul nascere l’apertura di un secondo “fronte” di lotta per l’autodeterminazione in Cisgiordania». Anan era nel mirino di Israele: il 29 gennaio 2024 è stato infatti arrestato dietro richiesta di estradizione di Tel Aviv. L’estradizione viene però negata e da qui sorge l’esigenza di intervenire in supplenza di Israele. Assieme a Anan, questa volta, vengono arrestati anche Ali e Mansour per “associazione con finalità di terrorismo”. Gli ultimi due vengono liberati dal Tribunale della Libertà a settembre 2024, Anan è tutt’ora detenuto. Casi simili si sono verificati anche in Francia e nel resto d’Europa.
«Il fatto che pensassero di usare 25 interrogatori compiuti ai danni di cittadini palestinesi dallo Shin Bet e dalla polizia israeliana in Italia, dice tutto». Rossi Albertini ricorda la violazione sistematica di tutti i diritti di difesa da parte di Israele verso i detenuti palestinesi, gli interrogatori senza difensore, i rapporti delle associazioni dei diritti umani sulle pratiche di tortura all’interno delle prigioni e delle sale di interrogatorio di Tel Aviv, confermate anche da un recente rapporto ONU. «Anche l’intervento in videoconferenza di un ufficiale israeliano per il Sud Europa a Parigi, che aveva dietro di sé una enorme bandiera israeliana, mentre in aula sono vietati tutti i simboli a sostegno della lotta palestinese, mostra la direzione processuale». L’Italia si dimostra così, ancora una volta, complice di Israele, non solo sostenendo lo stato sionista nelle sue attività belliche e coloniali, ma anche reprimendo i suoi oppositori all’estero.
Il processo è alle battute conclusive. La prossima udienza si terrà il 19 dicembre alla Corte d’Assise d’Appello dell’Aquila, dove la parola passerà alla difesa e ci sarà la sentenza. I movimenti legati alla Campagna Free Anan e Reti per la Palestina di Basilicata hanno annunciato una mobilitazione in contemporanea a Melfi, dove Yaeesh è attualmente detenuto.




