sabato 6 Dicembre 2025

Bologna, 6 dicembre 1990: quando un aereo militare fece strage su una scuola

Sul filo dell’ultima campanella, una mattina d’inverno a due passi da Natale, quattro ragazzini corrono a scuola: sono in ritardo e devono accontentarsi dei banchi in prima fila, invece di quelli soliti in fondo che sono già occupati. Non potevano sapere, non lo poteva sapere nemmeno l’insegnante, che entro un paio d’ore tutta la loro classe sarebbe stata cancellata, letteralmente spazzata via da fuoco e fiamme, e tutti i loro compagni uccisi, disintegrati da un aereo color arancione piombato giù come un forsennato dal cielo. Era il 6 dicembre 1990, il giorno della strage alla succursale dell’istituto tecnico Gaetano Salvemini di Casalecchio, dove Bologna comincia la sua arrampicata verso i colli e dove la pace di una periferia verde e tranquilla, è stata squarciata da un boato di morte, un terremoto inaudito piovuto dall’alto. Federica Tacconi, Milena Gabusi, Daniele Berti e Federica Regazzi, i quattro ragazzi arrivati a scuola col fiatone, sono tutto quello che è rimasto della loro classe, la 2A. Protagonisti loro malgrado di una sliding door che non era un film, ma è stato come tirare a dadi il proprio destino: un’inezia che gli salvato la vita, la semplice questione di pochi metri, e che per molto tempo ha tolto loro la pace.

Un siluro arancione dal cielo

Hanno visto i loro compagni morire, travolti e inceneriti da un Aermacchi MB 326 dell’Aeronautica Militare che ad un certo punto del suo volo è impazzito ed è venuto giù in picchiata, imbizzarrito come un cavallo mustang con le briglie sciolte. E invece di andare a schiantarsi dove non avrebbe potuto fare danni, invece di allontanarsi il più possibile da case e persone, si è infilato sul municipio più grande dell’area metropolitana di Bologna, proprio al primo piano della succursale dell’istituto dove i ragazzi avevano già cominciato i preparativi per le festività natalizie, con decorazioni e canzoni, e che nelle foto in bianconero di quella mattina di orrore e morte, dopo lo schianto, è ridotto ad uno scheletro di mattoni, fumante e annerito. Un bilancio di guerra, quando le ambulanze e i vigili del fuoco hanno finito il loro triste lavoro: 12 alunni uccisi, 11 ragazze e un ragazzo. Tutti del ’75, tutti strappati via a 15 anni, una vittima non li aveva nemmeno compiuti. Bambini. 88 i feriti in tutta la scuola che in quel momento ospitava 200 ragazzi, 82 dei quali studenti. 72 di loro feriti in modo grave o molto grave, tanto che hanno riportato invalidità dal 5 all’85%, vite rovinate nella mente e nel corpo, vite tutte in salita. Una mattina tranquilla che improvvisamente, alle 10.33, diventa un inferno di urla, disperazione, lacrime.

La 2A del Salvemini dopo lo schianto

Un fuggi fuggi da quelle aule diventate improvvisamente delle camere a gas. Ragazzi e docenti che disperati si lanciavano nel vuoto, spingendosi giù dal cornicione pur di scappare dal fumo nero, dai veleni delle fiamme, da quella morte calata su di loro come un colpo di mannaia. Una scuola devastata e sventrata nel suo intimo, una comunità e una città intera, Bologna, colpite a morte nel cuore di una collettività che ha scoperto con la brutalità durata un fiammifero, tutta la propria fragilità. Quella sensazione insopportabile che non ti levi mai più dalla pelle, un ergastolo dell’anima, di non essere riusciti a proteggere i tuoi figli e i tuoi nipoti. Ma anche lo sbigottimento del Paese, tutta l’Italia a interrogarsi su come sia possibile che una classe di ragazzi possa essere annientata in quel modo, proprio dentro una scuola che dovrebbe essere un porto sicuro. Un posto dove, come tutti i coetanei, anche i ragazzi della 2A coltivavano tutti i giorni i loro sogni e le loro aspettative: pochi giorni prima della strage, gli era stato proposto un tema dedicato al senso della vita e andare a rileggere i loro lavori, i loro pensieri, guardare le loro fotografie sorridenti, è straziante. Deborah, Laura, Sara, Laura, Tiziana, Antonella, Alessandra, Dario, Elisabetta, Elena, Carmen ed Alessandra, i loro nomi, sono rimasti per sempre nella loro aula.

La missione “Alfa 356” da Verona

Un Aermacchi MB-326 simile a quello coinvolto nell’incidente

Il sottotenente Bruno Viviani aveva 24 anni e 740 ore di volo alle spalle, 140 delle quali proprio con l’MB-326 che è stato un’eccellenza italiana nei jet-trainers, gli aerei militari da addestramento. Lo hanno elogiato perfino gli americani e altrove, nel mondo dove è stato il velivolo italiano più gradito ed esportato nel suo genere, progettato e costruito dall’Aermacchi, lo hanno trasformato in un caccia operativo piuttosto efficace, oltre che maneggevole. Come per esempio i sudafricani che lo hanno acquistato e armato di tutto punto, in barba alle disposizioni di embargo ONU, all’epoca in vigore contro l’apartheid in atto in quel Paese. Quella mattina del 6 dicembre, al 3° Stormo dell’Aeronautica di Villafranca, alle porte di Verona, a Viviani era stata assegnata una missione “in bianco”, ossia disarmata. Il piano di volo, battezzato “Alfa 356”, era iniziato col decollo alle 9.48 e prevedeva un passaggio in una zona tra Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna, con un attacco simulato ad una postazione: tre passaggi prima di essere intercettato.

Ma circa mezz’ora dopo il decollo, Viviani è costretto a comunicare alla torre di controllo di Monte Venda, nel padovano, la “piantata” dei motori, che in gergo vuol dire la perdita di potenza di uno o di tutti i propulsori che improvvisamente calano fino anche a fermarsi. Viviani comunica un calo del 60% dei motori del suo MB-326. Da manuale, un pilota in quella situazione non proprio semplice deve abbassare il muso del suo velivolo, per cercare di mantenere velocità e portanza, prima di tutto per non perdere quota. Aprire i flap e, soprattutto, azionare il dispositivo “relight”, ossia una riaccensione. Viviani esegue e l’apparecchio riprende il 75% della sua potenza, si trova a 1.371 metri sopra Ferrara e ha la possibilità di tentare un atterraggio di emergenza a Poggio Renatico, sulla pista di un aeroporto militare dove eventuali danni sarebbero stati comunque circoscritti. Non lo fa, però. Perché dalla torre di controllo l’aereo viene dirottato verso Bologna, una disposizione alla cieca, senza conoscere la disponibilità delle piste del Marconi e la struttura del territorio.

Ci sarebbe stato anche il mare per cadere, per la verità. L’Adriatico. Le spiagge dei lidi ferraresi, non molto lontane, sarebbero state un punto di fuga isolato, vuoto e sicuro, specie in quei giorni di dicembre. L’unico danno sarebbe stato, per l’Erario, la perdita dell’aereo. Ma Viviani esegue gli ordini e prosegue, anche se scarica tutto il carburante per alleggerire l’aereo e depotenziare il più possibile i rischi della caduta ormai prossima. Quando la torre di controllo del Marconi di Bolgona lo avvista, alle 10.25, Viviani comunica “ho delle forti vibrazioni… Ho i comandi laschi, mi sa che mi lancio”. Sei minuti dopo, alle 10.31, l’ultima comunicazione radio tra l’aereo e la base di Villafranca: dal 3° Stormo l’indicazione di allineare il muso del MB-326 alla linea dell’orizzonte e orientarlo verso una zona disabitata. L’aereo ormai impazzito, invece, punta verso la periferia di Bologna, mentre Viviani aziona l’espulsione del suo seggiolino: nella caduta il pilota si romperà tre vertebre, nonostante il paracadute. Quel tipo di seggiolino – denominato 0/0 – poteva funzionare ed espellere in sicurezza il pilota a velocità e quota zero: ma Viviani aziona l’espulsione ad un’altezza considerevole, quindi con un margine ancora molto ampio per mettersi al sicuro. Perché non ha aspettato, continuando a governare nel frattempo l’aereo? Fatto sta che l’Aermacchi, abbandonato a se stesso, si dirige verso Casalecchio. Proprio sopra all’istituto Gaetano Salvemini, dove piomba come un castigo del cielo due minuti dopo, mentre la chioma di un pino lo smista atrocemente verso la finestra della classe 2A. Quel siluro colorato di arancione che qualche studente ha visto, prima di tremare per il boato dell’impatto e per la violenza delle conseguenze.

Tre militari alla sbarra

Il pilota Bruno Viviani durante il processo per l’incidente

Due giorni dopo l’apocalisse di fuoco e morte nella pancia della Salvemini, il pubblico ministero Massimiliano Serpi – che da magistrato inquirente si era già occupato del processo a Luigi Ciavardini per la strage alla stazione di Bologna – firma l’avviso di garanzia nei confronti del sottufficiale Bruno Viviani e nomina tre medici legali. Insieme al pilota, sono indagati anche il comandante del 3° Stormo di Villafranca, colonnello Eugenio Brega, e il responsabile della torre di controllo e delle operazioni, tenente colonnello Roberto Corsini. Vengono messi sotto accusa anche funzionari ed amministratori di Casalecchio, ipotizzando l’assenza di dispositivi antincendio nella scuola, e i meccanici addetti alla revisione e manutenzione dell’aereo. I loro fascicoli vengono poi archiviati, ma quello relativo ai tecnici dell’Aeronautica potrebbe essere stato stralciato in modo sbrigativo, per ragioni affiorate in tempi più recenti. Il giudice delle indagini preliminari (all’epoca si utilizzava nella fase istruttoria il codice di procedura precedente a quello attuale) è Aureliana Del Gaudio, al quale viene assegnato il fascicolo delle indagini. I tre militari, gli unici imputati, finiscono alla sbarra con le accuse di omicidio colposo plurimo, disastro aviatorio e lesioni. Il 28 febbraio 1995 vengono condannati in primo grado a due anni e sei mesi di reclusione e al pagamento delle spese processuali, al risarcimento e alle provvisionali alle parti civili che sono state costrette ad affidarsi ad avvocati privati perché l’Avvocatura dello Stato, rappresentata dal legale Mario Zito, ha negato loro il patrocinio per dedicarsi alla difesa dei militari imputati e del Ministero della Difesa: scelta che ha provocato non poche polemiche. Così come il fatto che il Consiglio di Istituto sia stato escluso dalle parti civili, in quanto non rappresentativo degli interessi della scuola. Il Ministero della Pubblica Istruzione, che ne avrebbe avuto la titolarità, scelse di non farla valere.

Un colpo di spugna in 8 giorni

Due anni dopo, nel gennaio 1997, il processo di appello che in appena otto giorni ribalta tutto: il 22 del mese la sentenza della Corte di Assise che spazza via la pronuncia di primo grado e assolve tutti “perché il fatto non costituisce reato”. Ci vogliono la bellezza di cinque mesi per leggere le motivazioni del dispositivo, nonostante le ripetute sollecitazioni del sindaco e del ministro di Grazia e Giustizia a rispettare i termini di legge che prevedono 90 giorni per il loro deposito. La Corte d’Appello stabilisce l’”imprevedibilità dell’evento e l’ineluttabilità del danno”, puntando il dito verso i giudici del primo grado, così come verso il pm della fase istruttoria, il Gip, il pubblico ministero del primo processo e il procuratore generale di quello di Appello. Tutti spinti da suggestioni “politiche”, mentre secondo i giudici dell’Appello il processo non sarebbe nemmeno dovuto iniziare, visto che gli imputati – secondo loro – non avevano nessuna colpa per le avarie dell’aereo e quindi per le catastrofiche conseguenze della sua caduta. Per la Corte di Appello di Bologna, la strage del Salvemini è stata imputabile solo al fato. Al destino. Una tragica fatalità che esclude ogni umana colpa. La Quarta sezione della Corte di Cassazione, il 26 gennaio 1998, ha confermato il giudizio di secondo grado, respingendo il ricorso delle parti civili (familiari e parenti delle vittime in primis) e dal Procuratore generale di Bologna, e prosciogliendo in via definitiva gli imputati. Per la giustizia italiana, la strage dei ragazzi del Salvemini è un fatto dovuto alla casualità. Peccato che quell’aereo, l’MB326 pilotato da Viviani, avesse avuto altre due “piantate” ai motori nel corso dello stesso anno: il 22 febbraio e l’8 novembre, un mese prima di schiantarsi sulla scuola di Casalecchio.

I misteri del jet revisionato

Ciò che resta del jet, rimosso dalla classe dai vigili del fuoco dopo l’incidente

Il comandante Mario Ciancarella, ufficiale pilota, ha pagato un prezzo molto alto alla sua caparbietà e alla sua ostinazione. Il suo impegno per creare un movimento democratico all’interno delle forze armate e per scoprire le verità inconfessabili della strage di Ustica, sulla quale si è impegnato per anni raccogliendo il testimone di amici commilitoni coinvolti e misteriosamente “suicidati”, gli sono costati, oltre ad una detenzione terrificante a Forte Boccea e ad una vita segnata per sé ed i propri familiari, la radiazione dal corpo di appartenenza, l’Aeronautica Militare. Che però è stata eseguita con un decreto a firma apocrifa dell’allora presidente della Repubblica, Sandro Pertini, come accertato dalla magistratura in una battaglia giudiziaria durata decenni. Nella sua autobiografia, Si può si deve, edita da Pigreco, Ciancarella dedica alcune riflessioni sul sistema di manutenzione e revisione degli aerei da parte dell’Aeronautica: sono previsti tre livelli di interventi, l’ultimo dei quali denominato “Grande Ispezione”, eseguito da officine specializzate esterne alle forze armate e che costa milioni ai contribuenti. Prevede letteralmente che l’aereo sottoposto a revisione venga rivoltato da cima a fondo e riportato a condizioni pari al nuovo con una procedura meticolosa e rigorosamente documentata e certificata. Come è stato possibile, si chiede il comandante, che un velivolo come l’MB326 pilotato da Viviani, passato da poco attraverso il terzo livello di manutenzione, il più accurato e approfondito, potesse avere problemi di quel genere in volo, fino a subire la “piantata” dei motori? Come era possibile che un apparecchio riportato in teoria a condizioni di perfetta efficienza, potesse manifestare tali e tante avarie e problemi? I meccanici di Villafranca deputati alla manutenzione di quel jet da addestramento, inizialmente iscritti nel registro degli indagati da parte della magistratura, sono usciti di scena presto, prosciolti da ogni accusa. Forse troppo presto.

Progettato per volare anche senza il motore

Non è tutto, però. Su quel tipo di aereo, i collegamenti erano meccanici, e non idraulici. Ossia, per governare le superfici mobili come alettoni e timoni che possono essere le ancore di salvezza quando le cose si complicano, non era necessaria la rotazione del motore e la sua erogazione. Per farla breve, l’MB326 era stato progettato e realizzato per poter volare e soprattutto atterrare anche coi motori spenti. Infatti, era famoso proprio perché concepito per poter planare in condizioni estreme, gli allievi piloti erano messi alla prova proprio su questo e dovevano sviluppare le loro capacità, così come il sottufficiale Bruno Viviani. E allora, come si è potuto parlare di “aereo ingovernabile” per la strage del Salvemini? Siamo proprio sicuri che sia stato il destino ad abbattere quell’aereo che aveva avuto due guasti analoghi in pochi mesi? Quali sono state le vere cause di quell’avaria fatale che per i giudici è stato un evento imponderabile e che in tempo di pace ha provocato la più grave strage di adolescenti in questo Paese?

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Salvatore Maria Righi

Giornalista professionista dal 1992, è stato per 15 anni caposervizio e inviato della redazione romana del quotidiano L’Unità, occupandosi di inchieste di cronaca e criminalità. Per L'Indipendente cura la rubrica "pagine oscure d'Italia"

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