«C’è una rivoluzione silenziosa che sta ridisegnando il nostro modo di vivere e lavorare. Le intelligenze artificiali, entrate dapprima di soppiatto nelle nostre abitudini quotidiane, oggi afferrano interi settori produttivi e li rimodellano seconda una logica nuova: rapidità, automazione, efficienza. Dietro l’euforia dell’innovazione si nasconde una domanda che fino a pochi anni fa sarebbe sembrata fantascienza: che fine farà il lavoro umano?».
Ecco, e se vi dicessi che il paragrafo che avete appena letto è stato scritto da ChatGPT? Sentendo sempre più spesso parlare di quest’applicazione che sta letteralmente spopolando tra giovani e non, ho voluto testarla e metterla a prova. I primi risultati che ho ottenuti sono stati penosi. Per arrivare al paragrafo che avete letto ho dovuto far leggere all’IA i miei articoli precedenti per farle memorizzare il mio stile, poi ho dovuto darle indicazioni precise su come doveva essere impostato l’attacco e quale tono usare, quali espressioni evitare.
Alla fine, facendo un calcolo del tempo che ho impiegato per scrivere un paragrafo della stessa lunghezza con il tempo che ha richiesto addestrare ChatGPT, la bilancia, nel mio caso, pende a favore della scrittura manuale.
L’utilizzo dell’IA si è tradotta in una perdita di tempo e non in un guadagno. Inoltre, a dispetto di tutti i miei sforzi, non sono riuscita del tutto a umanizzare la scrittura della macchina. Per riconoscere la scrittura umana da quella artificiale occorre prestare attenzione al tono delle frasi, al loro ritmo, al suono che hanno. La scrittura generata da IA tende ad avere un tono eccessivamente impostato e formale; è drammaticamente perfetta e dunque tragicamente falsa. Ma se fortunatamente per ora le IA fanno fatica a imitare lo stile di un pezzo culturale o di un articolo di approfondimento, di tutti quei contenuti cioè dove si sente con forza lo stile e la voce di un giornalista, ChatGPT può imitare più facilmente lo stile di un pezzo di cronaca. E questo non lascia ben sperare.
Uno studio dell’Università di Trento del 2021 lo dice chiaramente: il 33,2% dei lavoratori svolge una mansione ad altissimo rischio di automazione. E non si parla soltanto di giornalisti, grafici, redattori, traduttori; sono centinaia le professioni a rischio: contabili, consulenti, interpreti, analisti, impiegati, sportellisti, camerieri. In Italia ci sono già i primi ristoranti che hanno assunto camerieri-robot. Per non parlare ovviamente di tutti coloro che in passato lavoravano nei cosiddetti servizi clienti e che oggi sono già stati in larga parte sostituiti da IA, per la grande gioia di noi consumatori costretti a dialogare e a cercare invano di spiegare a una voce artificiale il disservizio di cui siamo vittima.

Mentre si applaude l’innovazione, migliaia di lavori, e di lavoratori, scompaiono. Al loro posto sono subentrate entità digitali che non chiedono ferie, non si ammalano, non scioperano. L’equazione è molto semplice: più la tecnologia avanza, più i posti di lavoro diminuiscono.
Non posso fare a meno di domandarmi come si potrà gestire l’esubero di lavoratori improvvisamente a piede libero perché sostituti da più economiche ed efficienti intelligenze artificiali.
Ho notato che ultimamente si parla sempre più spesso di reddito universale, una misura ideata, almeno ai suoi albori, con lo scopo di garantire ai cittadini una somma mensile che garantisca a ogni individuo di poter vivere dignitosamente. Una misura nata per combattere la povertà, per arginare le diseguaglianze sociali e dare a tutti la possibilità di elevarsi socialmente e di non dover accettare lavori sottopagati perché spinti dalla mera necessità di sopravvivere.
Una misura che ovviamente ha suscitato dibattiti e polemiche infinite e che non è mai stata applicata in Italia; ciò che però mi ha inquietata è che ultimamente si parli di reddito universale come possibile risposta alla disoccupazione futura creata dalle intelligenze artificiali. Resta però in sospeso la domanda: dove trovare i soldi per finanziare questa costosissima manovra? Anche a ciò è stata trovata una soluzione: tassare le intelligenze artificiali, in modo ridotto ovviamente per garantire alle aziende quel margine di guadagno competitivo rispetto all’assunzione di un lavoratore umano. Basta poco per intuire che le entrate derivate dalla tassazione agevolata di un numero esiguo di intelligenze artificiali, a scapito dei milioni di lavoratori che andranno a sostituire, non potrà che produrre entrate marginali nelle casse dello Stato che a loro volta si tradurranno in un reddito minimo da devolvere ai lavoratori improvvisamente superflui e non necessari. Il reddito universale sembra a tutti gli effetti una misura studiata non per agevolare i poveri, ma per tenere buone le persone mentre il lavoro scompare.
Per anni ci è stato raccontato che la tecnologia ci avrebbe liberati dalla fatica e ci avrebbe regalato più tempo per vivere. Ma vivere come? Senza autonomia economica? Senza uno scopo, un fine, una professione? Che razza di libertà è quella che dipende da una carta prepagata dello Stato? In una società in cui il lavoro anziché essere un diritto diventerà un privilegio, e in parte lo è già soprattutto per i giovani, visti i livelli di disoccupazione giovanile, quale fisionomia acquisirà la nostra cultura? Come si evolverà il pensiero umano e quali progressi etici accadranno in un mondo popolato da una massa di disoccupati da una parte e dall’altra da una piccola casta di privilegiati che ancora lavora?
Si stanno gettando le basi per la nascita di una nuova aristocrazia che avrà accesso a tutto ciò che rende la vita interessante e che potrà costruire il mito della propria superiorità sull’utilità che riveste nella società a scapito di un proletariato di disoccupati costretti a un ozio imposto e forzato.
Ma senza spingerci tanto in avanti, c’è un altro aspetto che merita di essere discusso, qualcosa che non è probabile che accada nell’immediato futuro, ma che è già accaduto e che sta accadendo adesso.
Non si tratta più di una questione economica e della perdita di posti di lavoro, ma di qualcosa di più pervasivo: le intelligenze artificiali stanno trasformando e modificando il modo in cui pensiamo. Per millenni l’uomo ha affinato le proprie capacità mentali attraverso lo studio, la ricerca, la scrittura, e le mille attività che sono proprie di noi esseri umani.
Oggi invece stiamo delegando tutte quelle attività che richiedono uno sforzo mentale a un dispositivo esterno. Le IA vengono usate per scrivere email, elaborare progetti, svolgere compiti e mansioni che l’uomo non ha più il tempo o la voglia di svolgere. È comodo, certo. Ma è proprio questo il punto: questa rapidità, questa apparente generosità della macchina ci rende progressivamente più passivi. Le neuroscienze hanno dimostrato che la mente per svilupparsi e non appassire ha bisogno di lentezza e di fatica. Le sinapsi si rafforzano nell’esercizio, un po’ come i muscoli si rafforzano grazie a un allenamento costante e continuativo nel tempo. La domanda che dovremmo porci non è se l’IA sia utile, ma quale prezzo stiamo pagando per questa comodità mentale.

Il filosofo greco Eratostene calcolò la circonferenza della terra grazie a semplici bastoni che proiettavano delle ombre. Copernico elaborò la sua teoria che rivoluzionò l’astrofisica attraverso calcoli e studi manuali. Oggi invece senza una calcolatrice perfino una semplice moltiplicazione mette in crisi ragazzi e adulti.
Oppure pensiamo a come fino a pochi anni fa si facevano le ricerche: si prendevano in mano le enciclopedie, una presenza immancabile nella casa di ogni italiano, e si dava inizio a un vero e proprio viaggio nella conoscenza: i libri venivano sfogliati, le informazioni setacciate.
Era un lavoro lungo, faticoso, estenuante perfino. Oggi invece basta un click. Vuoi sapere in che anno è stata combattuta una certa battaglia? Chi ha inventato il grammofono? Come si chiama l‘uomo che ha dipinto La ronda dei carcerati?
IA, come ChatGPT ad esempio, sono in grado di fornire una risposta immediata. Ma questa non è ricerca e neanche conoscenza: è consumo di informazioni. Non servirà a niente sapere che un uomo di nome Van Gogh ha dipinto La ronda dei carcerati e non servirà a niente sapere che la rivoluzione francese è avvenuta nel 1789, se ci si limita ad assimilare in modo passivo queste informazioni. Il dato non diventa concetto, non si innerva nel pensiero, non trasforma la mente.
Qualcuno obietterà: ma grazie alle IA è tutto più semplice e immediato. Ciò è innegabile, ma era durante questo processo fatto di leggere, scegliere, valutare, soppesare e mettere a raffronto le diverse informazioni che nasceva qualcosa che oggi manca: il senso critico. La innovazioni tecnologiche semplificano la vita, ma questo si traduce in una perdita di funzioni cognitive essenziali: ragionamento, creatività, immaginazione.
Inoltre, quando ci abituiamo a usare un dispositivo che fornisce soluzioni immediate e apparentemente neutre, iniziamo a immaginare il mondo secondo la sua forma, non più secondo la nostra. La creatività, che per definizione devia, inciampa e sbaglia, rischia di irrigidirsi fino a diventare una copia edulcorata delle proposte della macchina. Ci stiamo allontanando sempre più da quel margine di imperfezione che ha generato le più grandi opere dell’umanità, perché ogni vera scoperta nasce dal contrasto, dalla resistenza e non dall’automatismo. Quando leggiamo e ripetiamo a pappagallo le risposte che ci fornisce una macchina, non stiamo pensando, non stiamo ragionando, ci limitiamo a fare da cassa di risonanza per i pensieri e le parole pensate da un cervello artificiale. Prendiamo in prestito il cervello di una macchina, e diventiamo noi stessi cervelli presi in prestito. Superflui, non necessari. E così, mentre la tecnica avanza, il cervello retrocede. Non perché sia diventato improvvisamente incapace, ma semplicemente perché abbiamo smesso di usarlo.




