Mettere in dubbio la narrazione di Kiev sulla guerra, anche quando si è incerti sulla fondatezza delle informazioni, potrebbe legittimare la diffamazione da parte di terzi. Almeno, questo è quanto emerge dalla richiesta di archiviazione della denuncia per diffamazione avanzata dall’avvocato Marco Bordoni. Nel 2024, a seguito dell’attacco di un missile russo contro la città di Kharkhiv, Bordoni aveva pubblicato un post su X, chiamando la città con il suo nome russo (Kharkov), dichiarando che «secondo Zelensky» il missile era di provenienza russa e offrendo il punto di vista di un analista russo. Visto il fioccare di insulti e minacce per «complicità filorussa» apparsi sotto il post, Bordoni ha sporto denuncia per diffamazione. Denuncia che rischia ora di essere archiviata, in quanto, secondo il pm, il post «poteva essere percepito dal cittadino medio come una provocazione» alla luce del contesto «di forte coscienza sociale» creato dalla guerra, «che ha visto gran parte della popolazione schierarsi a sostegno dell’Ucraina». L’ultima parola sul caso spetterà al GIP.
Marco Bordoni è un avvocato civilista di Bologna che da anni pubblica osservazioni e materiale di divulgazione sull’area russa, spinto anche da un interesse personale e da qualche conoscenza linguistica di base. Sul proprio profilo X ha sempre sostenuto l’opportunità di riferire più versioni quando non è possibile verificare direttamente i fatti; così fece il 25 maggio 2024, dopo che un missile aveva centrato un grande centro commerciale a Kharkiv provocando morti e feriti. Nel post, utilizzando il toponimo russo “Kharkov” per riferirsi alla città ucraina di Kharkiv, l’avvocato ha precisato, citando testualmente il presidente ucraino, che l’attacco era di matrice russa «secondo Zelensky». Inoltre, ha riferito – allegando il link della fonte – l’indiretta conferma del blogger russo Cassad, che ha parlato di «esplosioni secondarie» per presenza di materiale militare. Sotto il post si è scatenata una valanga di reazioni violente nella sezione commenti, con utenti che hanno definito Bordoni un «filo invasore» e un «traditore dell’Occidente», accusandolo di «complicità filorussa». Di fronte a questi insulti, l’avvocato ha ritenuto di aver subito una diffamazione e ha quindi presentato una denuncia. Tuttavia, la Procura della Repubblica di Bologna, nella persona del sostituto procuratore incaricato dell’indagine, ha chiesto al giudice l’archiviazione del caso.
Proprio la motivazione di questa richiesta è ciò che trasforma la vicenda da una semplice scambio sui social network a un potenziale precedente preoccupante. Dalla lettura del documento si evincerebbe infatti che, secondo il pm, quei commenti costituirebbero reazioni scatenate dal comportamento provocatorio di chi aveva pubblicato il post, inserito in un clima nazionale particolarmente sensibile e schierato con l’Ucraina. In sostanza, la percezione collettiva di chi legge come «filorusso» il contenuto renderebbe giustificabili – o almeno non punibili – le risposte offensive. Una lettura che molti osservatori inquadrano come pericolosa, dal momento che legittimare reazioni offensive sulla base di un’emozione collettiva rischia di erodere le garanzie contro le aggressioni verbali e di indebolire la tutela della reputazione individuale.
Bordoni, ovviamente, contesta fermamente l’ottica adottata dalla Procura nell’esame del caso. Il post dell’avvocato, che riportava una notizia citando le proprie fonti, non conteneva fake news né insulti. Dunque, secondo la sua difesa, la reazione diffamatoria degli utenti non sarebbe giustificabile in alcun modo sulla base del contenuto del messaggio originario. A ogni modo, le carte sono ora al vaglio del Gip, che dovrà stabilire se archiviare o, in alternativa, opporsi alla richiesta del pm.




