Una sentenza del Tribunale di Bergamo segna una svolta storica nella tutela dei lavoratori che denunciano irregolarità. Per la prima volta in Italia, un giudice ha infatti applicato pienamente le tutele previste per i cosiddetti “whistleblower”, dichiarando la nullità degli atti ritorsivi subiti da un’agente di polizia locale che aveva segnalato gravi illeciti nell’ente in cui lavorava. La donna, dopo aver denunciato anomalie nell’erogazione di buoni pasto, indennità di turno e permessi studio, oltre a irregolarità nella gestione di fondi pubblici, fu sottoposta a un vero e proprio sistema di persecuzioni e demansionamento per tre anni. Tale verdetto, sfociato anche attraverso il meccanismo dell’inversione dell’onere della prova, rappresenta un punto di riferimento fondamentale per la protezione di chi ha il coraggio di denunciare gli illeciti.
La vicenda ha origine quando l’agente, già eletta RSU, segnalò all’ANAC e alla Guardia di Finanza una serie di irregolarità concernenti «l’erogazione dei buoni pasto, delle indennità di turno e dei permessi studio a chi non ne aveva diritto» e altre anomalie nella gestione dei fondi. In seguito a queste denunce, la donna fu sottoposta a quello che il Tribunale ha definito un ambiente di lavoro «nocivo e stressogeno». Il Comandante avviò «due procedimenti disciplinari infondati», le revocò l’arma di servizio, la assegnò all’ufficio notifiche dove svolgeva mansioni inferiori come «archiviazione, scannerizzazione, fotocopiatura e sostituzione dei rotolini delle stampanti portatili», attribuendole una valutazione professionale negativa. Inoltre, dalle testimonianze è stato possibile attestare come lo stesso Comandante la denigrasse in continuazione, proferendo frasi come «è una testa di cazzo», «ha un carattere di merda», e che fu attuato un progressivo isolamento della donna da parte dei colleghi.
Il Tribunale ha applicato per la prima volta in modo efficace il meccanismo dell’inversione dell’onere della prova previsto dall’art. 54-bis del d.lgs. 165/2001, affermando che «quando intervengano atti pregiudizievoli in stretta contiguità temporale con la segnalazione, è l’amministrazione a dover dimostrare che siano determinati da ragioni estranee alla denuncia dell’illecito». I giudici hanno dunque dichiarato la nullità delle misure ritorsive, constatando che la convenuta «non ha dimostrato in modo efficace che esse erano, di contro, esclusivamente motivate da ragioni del tutto estranee alle segnalazioni».
Il Tribunale ha riconosciuto il danno morale in via presuntiva, osservando che «tre anni di umiliazioni, isolamento e ostilità non possono che tradursi in una sofferenza intensa» e che tale pregiudizio può essere accertato attraverso presunzioni semplici, richiamando le «massime di comune esperienza». La giudice ha quindi condannato l’ente al pagamento di 25mila euro a titolo di risarcimento del danno morale, liquidato in via equitativa, «cifra che tiene conto sia del demansionamento subito dal 14.9.2020 al 6.10.2022, quantificato in una somma pari a circa il 20% della retribuzione mensile percepita (cfr. cedolini in atti), sia delle ulteriori sofferenze morali conseguenti alle condotte vessatorie subite per circa 3 anni».
Tuttavia, il limite di questo verdetto storico è rappresentato proprio dalla quantificazione del risarcimento: l’importo di 25.000 euro appare infatti sproporzionatamente basso rispetto alla gravità delle condotte accertate e alla durata delle persecuzioni subite dalla lavoratrice. Come evidenziato nella dottrina, questa moderazione risarcitoria rischia di non esercitare un reale effetto di deterrenza e si pone in contrasto con la Direttiva UE 2019/1937, che assegna esplicitamente alla tutela dei whistleblower una funzione dissuasiva.




