lunedì 10 Novembre 2025

Shock economy a Gaza: le imprese italiane in fila per la ricostruzione

Nonostante il cessate il fuoco, proseguono le stragi di palestinesi da parte dell’esercito israeliano a Gaza, ma questo non ha impedito alle grandi imprese di tutto il mondo – comprese quelle italiane – di cominciare a guardare con interesse alla fase della ricostruzione fiutando la possibilità di fare affari d’oro grazie ai finanziamenti internazionali. È quella che in senso lato si può definire shock economy, la tendenza ad approfittare di crisi di qualsiasi tipo per mettere in atto azioni di speculazione economico-finanziaria che vanno soprattutto a beneficio di una élite economica. Tra le principali imprese italiane, quelle che punterebbero a partecipare al business della ricostruzione compaiono Webuild, Ansaldo Energia, Saipem e Maire. Secondo la rivista Fortune Italia, «Le aziende europee avranno una corsia privilegiata nelle gare per la ricostruzione».

La Banca Mondiale ha stimato in oltre 80 miliardi di dollari la cifra per smaltire le macerie e ricostruire Gaza e, insieme alle Nazioni Unite, ha già pubblicato diversi bandi per finanziare la ristrutturazione del territorio martoriato dalla guerra, tra cui il “Procurement Plan 2025-2027” con sovvenzioni iniziali per il progetto di riedificazione. L’Organizzazione mondiale per la sanità (OMS), invece, ha indetto un bando per apparecchiature mediche destinate agli ospedali palestinesi, la maggior parte dei quali sono interamente da ricostruire. La Banca Mondiale ha conferito a Gaza lo status di “special conflict-affected“, facilitando così l’accesso delle aziende ai bandi. Degli ottanta miliardi almeno venti andranno spesi nei primi tre anni e questo ha già attirato l’attenzione di grandi gruppi industriali, tra cui quelli europei e italiani.

La ricostruzione di Gaza si preannuncia come un compito estremamente difficile: il livello di distruzione, infatti, richiede la rimozione di ben 61 milioni di tonnellate di rovine. Almeno 436.000 abitazioni sono state distrutte o parzialmente danneggiate, secondo le stime di sei mesi fa contenute nel rapporto redatto dall’Ufficio per gli Affari Umanitari dell’Onu. Tra le rovine ci sono poi parti in amianto, metalli pesanti e ordigni inesplosi che necessitano di un «trattamento speciale», senza considerare il fatto che le macerie “restituiranno” almeno diecimila cadaveri. Secondo le Nazioni Unite per ristrutturare l’enclave potrebbero volerci circa vent’anni.

In questo quadro, gli ottanta miliardi di dollari stimati per ristrutturare Gaza serviranno per realizzare tre livelli di intervento tra loro interdipendenti: messa in sicurezza e rimozione delle macerie; ripristino funzionale delle reti vitali (acqua, elettricità, sanità, viabilità primaria); ricostruzione del tessuto residenziale, scolastico e produttivo. Senza il primo livello, non è possibile avviare gli altri due e senza il secondo, il terzo non è sostenibile nel tempo. A tal fine, si prevede che la cifra complessiva sarà stanziata in fasi e strumenti diversi: la prima fase prevede le donazioni per stabilizzazione, macerie e servizi essenziali, la seconda richiede un’unione tra donatori, banche multilaterali e garanzie per lavori su reti idriche, elettriche e trasporti. La terza fase infine apre a partenariati pubblico-privato (PPP) riguardanti edilizia sociale, energia distribuita e gestione dei rifiuti. Ed è qui che subentra l’interesse delle grandi imprese e che si svolgeranno le partite per i grandi appalti.

Tra le imprese potenzialmente coinvolte nella ricostruzione figurano grandi gruppi internazionali, tra cui anche diverse imprese italiane: oltre alle già citate WeBuild, Ansaldo Energia, Saipem e Maire compaiono anche Cementir, Gavio e ENI. Il grosso degli appalti potrebbe andare a WeBuild con il supporto di Cassa Depositi e Prestiti, mentre Gavio si occuperebbe delle infrastrutture stradali. Si fanno anche i nomi di Italferr per le ferrovie e Anas per l’asfalto. Ma la protagonista principale, secondo Piazza Affari, sarà Cementir dei Caltagirone grazie alla sua importante capacità produttiva in Turchia. Secondo Banca Akros, Cementir «potrebbe beneficiare della fine dei conflitti in Ucraina, Siria e nella Striscia di Gaza» grazie alla forte presenza in Turchia che la colloca nella posizione ideale per servire i cantieri dell’area. Dopo l’annuncio del presidente statunitense Trump sull’accordo per Gaza e la ricostruzione, le azioni Cementir hanno guadagnato il 16%, mentre da inizio anno la crescita arriva al 52%. Sono salite del 2% anche le altre due possibili beneficiarie della ricostruzione a Gaza: Buzzi e WeBuild. In questo panorama, anche la Commissione europea ha valutato un investimento triennale fino a 1,6 miliardi di euro (2025-2027).

Dopo aver contribuito alla distruzione di Gaza mediante il totale silenzio sulla condotta di Israele o addirittura inviando armi, ora i governi di buona parte del mondo cercano il loro spazio privilegiato negli affari della ricostruzione della Striscia con promesse allettanti per i grandi colossi industriali. Non c’è però solo l’aspetto economico, ma anche quello geopolitico: finanziare la ricostruzione di Gaza significa esercitare influenza sul territorio, rafforzando la propria presenza strategia nell’area del Mediterraneo. Profitti per le imprese secondo la dottrina della shock economy e geo-strategia per i governi appaiono le chiavi di volta che guidano le azioni degli attori internazionali nella ricostruzione di Gaza. Nel frattempo, il cessate il fuoco appare sempre più fragile e la popolazione civile è ancora sotto il fuoco dell’esercito israeliano che, a quanto pare, non ha ancora terminato la missione della distruzione dell’enclave palestinese.

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Giorgia Audiello

Laureata in Economia e gestione dei beni culturali presso l'Università Cattolica di Milano. Si occupa principalmente di geopolitica ed economia con particolare attenzione alle dinamiche internazionali e alle relazioni di potere globali.

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