YouTube ha rimosso senza preavviso oltre 700 video e tre account di ong palestinesi, Al Haq, Al Mezan Center for Human Rights e Palestinian Centre for Human Rights, che documentavano i massacri da parte di Israele nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania. L’eliminazione dei profili è stata confermata dalla stessa piattaforma che, interpellata da The Intercept, ha spiegato di averlo fatto per rispettare le leggi in materia di sanzioni imposte dal Dipartimento di Stato americano nei confronti delle organizzazioni coinvolte, per il loro contributo al procedimento della Corte penale internazionale contro Israele.
Dal canto loro, le tre ong colpite denunciano la rimozione dei contenuti come un tentativo di cancellare inchieste preziose su uccisioni, violenze e detenzioni arbitrarie nei territori palestinesi, sottraendo all’opinione pubblica testimonianze video essenziali e contribuendo così a silenziare la voce delle vittime, preservando al contempo la narrazione di Tel Aviv. I video rimossi comprendevano inchieste, interviste e documentari sulle azioni militari israeliane e sulle condizioni della popolazione palestinese, oggi in gran parte inaccessibili o recuperabili solo in parte, tramite archivi indipendenti su Wayback Internet Archive e su Facebook. Diversi video rimossi erano stati utilizzati come prove in indagini internazionali o ripresi da emittenti estere per documentare i crimini di guerra commessi da Israele. Tra i materiali cancellati figuravano un’analisi sull’uccisione della giornalista statunitense Shireen Abu Akleh, colpita da un cecchino israeliano mentre seguiva un’incursione dell’IDF nel campo rifugiati di Jenin, in Cisgiordania, testimonianze di detenuti palestinesi che denunciavano torture da parte delle forze israeliane e documentari come The Beach, che raccontava la morte di quattro bambini su una spiaggia di Gaza nel 2014, colpiti da un raid aereo.
I canali delle organizzazioni Al Haq, Al Mezan e del Palestinian Centre for Human Rights sono stati oscurati in blocco con la motivazione di presunte violazioni delle leggi sulle sanzioni, senza però che YouTube, di proprietà di Google, abbia fornito spiegazioni precise, né dettagli sui contenuti considerati irregolari, limitandosi a un messaggio automatico di chiusura. Le implicazioni toccano il diritto all’informazione e la trasparenza nei conflitti armati. La rimozione dei contenuti ripropone, inoltre, il tema della responsabilità delle piattaforme digitali nel filtrare le informazioni provenienti dalle zone di guerra e sulla reale trasparenza delle loro politiche di moderazione. A The Intercept il portavoce di Al Haq ha definito la decisione di YouTube «una grave violazione di principio e un’allarmante battuta d’arresto per i diritti umani e la libertà di espressione. Le sanzioni statunitensi vengono utilizzate per paralizzare il lavoro di accertamento delle responsabilità in Palestina e mettere a tacere le voci e le vittime palestinesi, e questo ha un effetto a catena su tali piattaforme che agiscono a loro volta in base a tali misure per mettere ulteriormente a tacere le voci palestinesi». Da parte sua, la piattaforma, in una nota del portavoce di YouTube Boot Bullwinkle, ha dichiarato di aderire alle leggi in materia, sottolineando che «ci impegniamo a rispettare le sanzioni applicabili e le normative sulla conformità commerciale».
Al di là delle giustificazioni formali, l’intervento di YouTube appare come una scelta politica: un’azione che contribuisce a oscurare la voce delle vittime e a tutelare, di fatto, l’immagine dello Stato israeliano, configurandosi di fatto come l’ennesima forma di censura della piattaforma, che mina il diritto alla verità e ostacola la diffusione di prove e testimonianze scomode sui crimini di guerra. In questo quadro, YouTube non agisce solo come intermediario tecnico, ma come un attore attivo nella costruzione del consenso informativo. La cancellazione di centinaia di video sulle violenze commesse a Gaza si configura come l’espressione di un controllo sistemico del racconto del conflitto, dove chi denuncia viene silenziato e chi colpisce resta protetto. Le ong palestinesi annunciano azioni legali e appelli internazionali per ripristinare i contenuti rimossi, denunciando il silenzio complice dell’Occidente. Mentre Israele continua a operare indisturbato, sostenuto dall’impunità diplomatica e dall’inerzia delle istituzioni internazionali, la rete – un tempo strumento di trasparenza – si trasforma nell’ennesimo campo di battaglia, dove la verità viene filtrata, rimossa e infine riscritta dai colossi del web.





