L’immaginario della fantascienza utopistica è popolato da mondi in cui robot e androidi si fanno carico dei mestieri più usuranti e umili, così che i loro padroni umani possano condurre vite più serene. Negli ultimi anni, diverse aziende sembrano intenzionate a tradurre questo ideale in realtà, annunciando la produzione di assistenti meccanici umanoidi destinati a entrare, entro pochi anni, tanto nelle fabbriche quanto nelle abitazioni private. Questo destino si dimostra però più vicino di quanto non sia lecito pensare: nei giorni scorsi l’azienda 1X ha presentato alla stampa il Neo Robot, un automa già in prevendita che, secondo le promesse, potrà essere utilizzato dai normali cittadini entro il 2026. Tuttavia, dietro l’apparente sogno virtuoso si celano molte ombre che, invece di essere limate, rischieranno di diventare le fondamenta della tecnologia di domani.
Il Neo Robot ha iniziato a far parlare di sé nel settore a partire dall’ultima settimana di ottobre, ovvero da quando Joanna Stern del Wall Street Journal ha pubblicato un approfondimento dedicato al prodotto, corredandolo con un’intervista al CEO di 1X, Bernt Bornich. Visto che l’azienda promette una macchina capace di accogliere gli ospiti alla porta, pulire casa usando scope e detergenti, piegare la biancheria e molto altro, la testata ha ben pensato di verificare la veridicità di tali ambizioni trascorrendo del tempo con l’automa. Nonostante il tono positivo – è un po’ promozionale – del servizio, il responso finale evidenzia tutti i limiti di uno strumento che funziona poco e male.
Durante la dimostrazione, Neo Robot si è limitato a spostare oggetti di piccole dimensioni e, cosa più interessante, a caricare una lavastoviglie. Nonostante sia lecito pensare che l’azienda abbia imbastito l’esperienza per mostrare i punti forti del suo prodotto, tutte le azioni sono state compiute con estrema lentezza e una certa goffaggine. Resta comunque innegabile che un simile passo rappresenti un traguardo tecnico interessante — se solo non fosse fondato su un grande equivoco. L’androide, infatti, non è autonomo, bensì viene “assistito”, se non addirittura teleoperato, da un tecnico munito di visore per la realtà virtuale. Sebbene l’azienda assicuri che in futuro un’intelligenza artificiale potrà autogestirsi “nella maggior parte dei casi”, il sistema prevederà comunque la possibilità per gli utenti di prenotare fasce orarie in cui un operatore umano potrà connettersi da remoto per eseguire compiti complessi.
Al “modico” prezzo di 20.000 dollari, l’acquirente potrà dunque dotarsi di uno strumento che registra costantemente tutto ciò che viene custodito tra le mura di casa, offrendo in cambio la possibilità — non proprio rassicurante — di essere osservato nella propria intimità da uno sconosciuto privo di volto. “Se compri questo prodotto, significa che accetti questa forma di contratto sociale”, ha dichiarato senza girarci attono Bornich. “Se non abbiamo i dati, non possiamo migliorare il prodotto.” 1X assicura inoltre che, sul modello degli assistenti vocali come Alexa, “nessun dipendente dell’azienda può ascoltare o visionare i dati raccolti” dai Neo Robot. La storia recente ci ricorda che Alexa registrava conversazioni anche non sollecitate, condividendole poi con aziende esterne, spesso all’insaputa degli utenti.
Al di là dell’incubo di dover sacrificare la privacy in nome di un’ipotetica comodità, il Neo Robot evidenzia con chiarezza le insidie dell’“aiwashing”: la pratica di presentare come autonomi prodotti che dipendono in realtà da un intervento umano costante. Anche i robot Optimus di Tesla, per esempio, sono tuttora controllati da uno staff umano, mentre i robotaxi dell’azienda vengono “assistiti” da tecnici pronti a intervenire in qualsiasi momento. Tornando indietro nel tempo, è noto che i presunti negozi automatici di Amazon Go fossero in realtà supportati da operatori indiani e che molti sistemi di intelligenza artificiale oggi in voga siano stati perfezionati grazie al lavoro sottopagato di subappaltatori in Paesi come Venezuela, Kenya e Uganda.
Il rischio, dunque, è che, incapaci di mantenere le promesse di efficienza, le aziende dell’IA si trasformino in realtà ibride in cui i modelli vengono “assistiti” da esseri umani reclutati nelle aree più vulnerabili del pianeta. Una forma di esternalizzazione invisibile dei lavori a basso valore, che consentirebbe alle imprese di ridurre costi e tutele, trasferendo i lavori di fatica a chi ha meno diritti. Non a caso, la parola “robot” deriva dal termine ceco robota, traducibile come “corvée”: prestazioni di lavoro gratuito dovute dai servi ai propri signori feudali. Un concetto preoccupantemente vicino a quello di schiavitù.




