Il mercato globale dei capi di seconda mano è in continua crescita, con un aumento annuo del 10%. Dagli attuali 220 miliardi di fatturato, si stima che possa arrivare a toccare i 360 miliardi nel giro dei prossimi cinque anni. I numeri sono quelli generati da un rapporto di BCG per Vestiaire Collective, piattaforma di rivendita di abiti usati, ma basta buttare un occhio anche su Vinted per capire come questo mercato sia in costante evoluzione. Ed il motivo è semplice: la moda è in una fase di precaria immobilità. I prezzi sono alti (considerati dazi per le esportazioni e gli stipendi medi), la situazione geopolitica attuale alquanto instabile e la minaccia costante del fast fashion stanno mettendo a dura prova l’intero settore. Ma il vero problema, più sottile ma altrettanto insidioso, arriva dalla rottura dell’equazione prezzo/valore. Le persone sono sempre meno disposte a pagare cifre elevate per un valore percepito che appare sempre più sproporzionato rispetto a ciò che effettivamente ricevono. È il segnale palese che i vecchi modelli di business non sono più efficaci, né per le persone né per il pianeta. Ed è in questo contesto che il second hand, da nicchia, sta diventando un’opportunità di crescita anche per quei brand che lo hanno sempre guardato con sospetto.
Mentre i numeri delle piattaforme di rivendita crescono in maniera vertiginosa (di tutte, da Vestiarie a Vinted, ma anche ThredUp, The Real Real, Depop, e Bay), alcuni marchi hanno deciso di intraprendere la strada del second hand e inserirla nella loro strategia. È il caso di Ganni, marchio danese, che in collaborazione con Vestiaire Collective, ha inserito un servizio dedicato dove i clienti possono inviare i loro capi usati direttamente sulla piattaforma; una volta autenticati, ricevono automaticamente una card del valore del prezzo del capo più un 10% (con opzione di ritiro a domicilio in UE e UK). Un’operazione che premia la fedeltà con un credito immediato, rafforzando l’idea di circolarità e senso di appartenenza ad una “community”, non spontanea ma direzionata dal marchio stesso.
Simile ma diverso l’approccio di Calvin Klein e del suo programma di ritiro Re-Calvin. I clienti, aprendo una sezione speciale del sito del marchio, possono stampare un’etichetta ed inviare in maniera gratuita qualsiasi capo di abbigliamento o accessori (incluso intimo e costumi). Da qui i capi possono essere donati, riciclati o convertiti in energia da rifiuti. Gli utenti, grazie ad una mail, ricevono notizie su quale “fine” hanno fatto le loro donazioni.
Questi due esempi, pur con le loro differenze, dimostrano che la circolarità può diventare un servizio che il brand può offrire ai loro clienti senza affidarsi ad enti di gestione esterna, tenendo il cliente all’interno del circuito del marchio; una sorta di servizio post-acquisto che mantiene vivo il legame con il brand stesso (e di questi tempi far affezionare e rendere fedeli i clienti è cosa sempre più difficile). In un sistema con crepe da tutte le parti, aprirsi a nuove opportunità e modelli di business è una via di salvezza, non solo per la propria impresa ma per tutto il settore. La moda, così com’è, sa di vecchio e non risponde alle esigenze attuali né delle persone né tantomeno dell’ambiente.
Approcci similari hanno una valenza multipla, sia in termini di monetizzazione sia in termini di impegno, dove il cliente si sente parte di un proposito più grande mentre il brand “educa” i consumatori alla responsabilità. Non che la sostenibilità sia la spinta motivante principale per i marchi: il problema dei magazzini e degli invenduti esiste da sempre (perché da sempre si producono più capi del necessario per abbattere i costi con le quantità, altra follia del fashion business) e mentre prima erano gli outlet a tirare su il fatturato di molte aziende, adesso le piattaforme online offrono la stessa opportunità senza il peso di importanti costi fissi di gestione.
Dall’altra parte, il rischio principale è che il second hand sovrasti la vendita dei capi nuovi, mangiando una buona parte di profitti. Il secondo punto dolente riguarda la logistica e la gestione del flusso dei capi su larga scala, soprattutto per l’aspetto di verifica dei falsi, imprescindibile per i marchi di lusso. Motivo per cui servono partnership forti con chi sviluppa strumenti tecnologici.
L’ultimo rischio, ma forse è il primo, è quello di trasformare l’acquisto di second hand in acquisti compulsivi di capi di seconda mano: con la smania di velocizzare i metodi di compravendita e la fama in crescita di questo tipo di comportamento, il pericolo è quello di ritrovarci davanti ad un ”fast fashion dell’usato”, dove invece di instillare valori di qualità e durata nel tempo, si continua ad alimentare il ricambio rapido e l’accumulo.
La circolarità come obiettivo e strumento per sviluppare nuovi business va bene, purché venga fatto con consapevolezza e per generare valore e valori, non solo economici.




 
         
    
