Sembra che il boicottaggio contro le aziende che appoggiano o finanziano Israele stia producendo i risultati sperati, almeno considerando le prestazioni delle grandi multinazionali finite nel mirino per il loro sostegno allo Stato ebraico, tra cui la nota catena statunitense di caffetterie Starbucks. L’azienda ha, infatti, annunciato che quest’anno chiuderà 200 punti vendita e taglierà oltre 900 posti di lavoro non legati alla vendita al dettaglio. La decisione si inserisce nel piano “Back to Starbucks” dell’amministratore delegato Brian Niccol per risollevare l’attività dopo un anno difficile. La catena statunitense non ha citato come motivazioni della chiusura di diversi punti vendita il boicottaggio legato alla questione palestinese da parte dei consumatori. Tuttavia, da diverso tempo l’azienda è finita nella bufera, al punto che negli USA alcune “celebrità” sono state attaccate da ondate di commenti critici sui social per essere state viste con il caffè Starbucks in mano.
A ben guardare, Starbucks non è una di quelle aziende che finanzia direttamente la distruzione di Gaza e non ha nemmeno filiali in Israele dal 2003. Inoltre, in una dichiarazione del 2014, l’azienda aveva apertamente dissipato le voci secondo cui l’amministrazione, insieme al fondatore Howard Schultz, contribuirebbe finanziariamente al governo israeliano o al suo esercito. La compagnia, però, è finita nel mirino degli attivisti a favore della Palestina e, in generale, di coloro che sono attenti alla situazione in Medio Oriente, in seguito al fatto che l’azienda ha rimosso un post del sindacato Starbucks Workers United su Twitter/X che esprimeva solidarietà al popolo palestinese. Successivamente, l’azienda ha intentato causa al sindacato per violazione del marchio, dichiarando la sua neutralità e cercando così di non perdere clienti né da una parte né dall’altra. Una mossa che non è piaciuta agli attivisti e che li ha portati a inserire la catena di caffetterie nella lista di aziende da boicottare, stilata dalla rete BDS.
In una dichiarazione, l’amministratore delegato della società, Niccol, ha affermato che l’azienda ha rivisto il proprio portafoglio di punti vendita e chiuderà quelli che non soddisfano le aspettative dei clienti o non mostrano un percorso verso la redditività. Inoltre, Starbucks eliminerà anche una serie di posizioni aperte non ancora ricoperte, insieme agli attuali 900 posti di lavoro non al dettaglio, in quella che Niccol definisce una «decisione difficile». Sebbene la dirigenza non parli apertamente di boicottaggio della catena, già nel 2023, successivamente a scioperi e a varie manifestazioni che si erano svolte contro Starbucks per la questione palestinese, le azioni della società erano scese di oltre il 7%, secondo un articolo della BBC. In una lettera al personale, il precedente amministratore delegato, Laxman Narasimhan, aveva scritto che «Le città di tutto il mondo, incluso il Nord America, hanno assistito a un’escalation di proteste. Molti dei nostri negozi hanno subito episodi di vandalismo. Vediamo manifestanti influenzati dalla falsa rappresentazione sui social media di ciò in cui crediamo».
A coordinare la campagna di boicottaggio contro le aziende che sostengono Israele è la Rete BDS (Boicottaggio, disinvestimento e sanzioni), così temuta da Tel Aviv da accusare i suoi coordinatori di terrorismo. Tra le altre aziende inserite nella lista del boicottaggio compaiono anche Carrefour, McDonald’s, Domino’s Pizza, Pizza Hut e Papa John, HP, Puma e ESTÉE LAUDER. Il crollo delle azioni e delle vendite di alcuni di questi colossi dimostra che il boicottaggio è uno strumento efficace per sostenere la Palestina e mettere in difficoltà Israele: già lo scorso anno il direttore finanziario di McDonald’s, Ian Border, aveva infatti avvisato che le vendite del gruppo sarebbero diminuite a causa degli avvenimenti in Palestina. In seguito alle sue dichiarazioni, nel marzo 2024 le azioni della compagnia erano crollate del 3,9% perdendo quasi 7 miliardi di dollari in un giorno, mentre già a febbraio il gigante degli hamburger aveva riportato un calo significativo di vendite nella sua divisione commerciale internazionale. Un’altra azienda che ha subito gravi conseguenze per la campagna di boicottaggio lanciata da BDS è la catena di supermercati Carrefour. La multinazionale, infatti, aveva stretto una serie di partenariati strategici con Israele, aperto filiali negli insediamenti illegali e sostenuto attivamente l’esercito israeliano durante l’assedio della Striscia di Gaza. Quest’anno, dopo anni di vendite in calo, il gruppo francese ha ceduto la sua rete di 1.188 punti vendita alla società italiana NewPrinces Group, in un’operazione da un miliardo di euro.
Le attività di boicottaggio stanno, dunque, producendo l’effetto per cui sono state pensate anche e soprattutto nei confronti dei colossi multinazionali, segno che si tratta effettivamente di uno dei modi più diretti e efficaci da parte dei cittadini per aiutare la Palestina e ostacolare le aziende legate in modi diversi a Israele. Anche Starbucks, pur non dichiarandolo esplicitamente, potrebbe avere subito le conseguenze di questa campagna a favore del popolo palestinese.






Ottimo, bisogna fare di più e meglio!