Passeggiando lungo i vicoli del quartiere della Barceloneta e per le rispettive strade che costeggiano le spiagge, molti elementi indicano che nella capitale catalana il surf è uno sport piuttosto comune. Se si volge infatti lo sguardo sul lungomare è frequente imbattersi in scuole e negozi dove trovare abbigliamento tecnico o locali dove affittare tavole e mute. Tuttavia, basta fare un giro di 180 gradi per notare che nell’acqua sono in pochi a destreggiarsi tra le onde.
Il turismo e le trasformazioni che hanno cambiato radicalmente l’infrastruttura marittima della città hanno cercato di creare un immaginario che vede in Barcellona una destinazione perfetta anche per praticare il surf. Ma la realtà dei fatti è ben diversa. Se le onde atlantiche che bagnano le coste del Paese basco e della Galizia rappresentano una Mecca per questo sport, dove ancora oggi si celebrano campionati nazionali e internazionali, il Mediterraneo non ha mai goduto della medesima fama: le onde, generalmente poco elevate e di bassa intensità, si concentrano in pochi giorni all’anno e rendono il desiderio di cavalcarle un sogno quasi impraticabile.
Nonostante le condizioni atmosferiche sfavorevoli, dagli anni Settanta in Catalogna si è creata una comunità che prova a sfidare il mare piatto e lotta per la salvaguardia delle coste dai piani urbanistici imposti dalle istituzioni politiche.
La pratica del surf raggiunge l’Europa alla conclusione della Seconda guerra mondiale attraverso i militari impiegati nelle basi statunitensi nelle Azzorre e in Inghilterra. Bisogna attendere però gli anni Sessanta prima di vedere il surf sulle coste della penisola iberica. La prima città a raccogliere le redini del movimento esploso negli Stati Uniti d’America è stata Biarritz, situata nel lato francese del Paese Basco. Da qui il surf ebbe l’occasione di spingersi investendo, timidamente, l’intera fascia atlantica del Paese, grazie alle onde che permettevano di replicare perfettamente le gesta dei surfisti attivi nell’Oceano Pacifico.
Da questo germe nato a ovest, alcuni dei giovani che ebbero modo di provare l’adrenalina del nuovo sport decisero di portare la passione sulle coste del Mediterraneo. Inizialmente, questo movimento fece fatica a trovare spazio anche a causa della situazione sociopolitica del Paese. Lo stereotipo dello stile di vita scanzonato e libero ereditato dal surf californiano si scontrava con la realtà autoritaria imposta dalla dittatura franchista.
La nuova comunità si adattò alle condizioni sfavorevoli della costa orientale con non pochi problemi. I riferimenti sportivi prettamente inesistenti e la penuria di onde rendevano la missione di importare il surf in Catalogna praticamente impossibile. Legati al Club de Natación de Castelldefels i primi appassionati erano soliti praticare il windsurf, ma nei giorni con poco vento utilizzavano le stesse tavole da “wind” per cavalcare le onde.
Gli anni Novanta segnarono la consacrazione della nuova comunità del surf catalano: fecero capolino i primi campionati dove si radunavano e si sfidavano gli sparuti gruppi provenienti da tutte le città costiere della regione. Nonostante ciò, la pratica non riusciva a trovare l’assenso della popolazione, ancora convinta che il Mediterraneo non offrisse la possibilità di cavalcare onde. Difatti, specialmente durante le mareggiate invernali, l’accesso all’acqua era spesso osteggiato e fortemente sconsigliato dalle autorità, nonostante fossero proprio quei pochi giorni l’occasione perfetta per praticare il surf.
In Catalogna è indubbiamente più difficile praticare il surf in confronto ad altri luoghi dove le onde sono garantite per la quasi totalità del tempo. Da qui nasce il detto popolare che sulla costa catalana è possibile cavalcare onde per «cento giorni all’anno». Questa caratteristica nel corso degli anni ha dato così vita a un moto d’orgoglio che ha spinto la comunità catalana a non cedere alla frustrazione e credere che anche in Catalogna il surf fosse possibile. Chiaramente la frustrazione non si limitava alle difficoltà in acqua. Senza la possibilità di consultare su internet le previsioni del moto ondoso, non appena si palesasse l’eventualità di pioggia, chi praticava questo sport si fiondava sulla costa con la speranza di buttarsi in acqua e, in caso contrario, percorreva l’intera costa per trovare la spiaggia nella quale “entrassero” le onde migliori. Questa difficoltà, per quanto rendesse difficile la pratica, ebbe il merito di sedimentare la relazione tra surfisti in tutta l’area che si scambiavano informazioni sull’andamento delle mareggiate.
Le spiagge più comuni dove praticare il surf sono, ancora oggi, quelle di Castelldefels, Sitges, Premià de Mar e, in particolar modo, quelle del quartiere della Barceloneta. Quest’ultimo visse una profonda trasformazione infrastrutturale tanto da renderlo irriconoscibile; difatti, a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta, non era raro per chi surfava dover condividere l’acqua con gli scarti industriali o le carcasse di animali riversati in mare. Le Olimpiadi del 1992 e l’esplosione turistica della città cambiarono tutto.
La comunità del surf ha iniziato così ad allargarsi e lo sport ha assunto una popolarità mai vista prima. Nonostante ciò, le difficoltà di surfare sulla costa catalana si sono unite al sovraffollamento delle spiagge e hanno così dato vita al fenomeno del localismo. Sempre più persone hanno iniziato a contendersi pochissime onde e di conseguenza la situazione ha portato a tensioni tra “locali” e surfisti turisti considerati come “invasori”.
Nel corso degli anni la comunità catalana, unita nell’Associazione Catalana del Surf, ha lottato anche contro i piani di cementificazione delle spiagge. Difatti, nei primi anni Duemila, centinaia di surfisti hanno manifestato più volte contro i progetti approvati dal Comune di Barcellona di costruire dei frangiflutti sul fondale marino in tutte le spiagge della città per risolvere il problema delle mareggiate e non perdere la sabbia artificiale. Questo piano ha portato ad alterare la conformazione geologica e orografica della Barceloneta e diminuire ulteriormente la praticità delle onde. Inoltre, ha definitivamente impedito al mare la possibilità di autoregolarsi, aumentando, paradossalmente, il rischio di distruzione delle spiagge.
Barcellona oggi fa del mare una delle caratteristiche principali del proprio successo turistico; per chi pratica il surf, però, quello stesso mare rappresenta una croce e una delizia. Nonostante sia difficile, la comunità surfista catalana con orgoglio e determinazione si lancia in acqua e cavalca le onde messe a disposizione dalla natura, almeno per cento giorni all’anno.