martedì 14 Ottobre 2025

Nel mondo impianti di petrolio e plastica mettono a rischio la salute di 51 milioni di persone

La produzione di plastica minaccia la salute pubblica su scala globale. Non si parla di minacce ipotetiche dovute alle conseguenze climatiche: ma di responsabilità dirette e misurabili, date dall’emissioni di polveri sottili e sostanze tossiche che colpiscono l’organismo degli esseri umani che vivono nelle vicinanze degli impianti. Un recente rapporto di Greenpeace International ha infatti rivelato che oltre 51 milioni di persone in 11 Paesi vivono entro 10 chilometri da impianti petrolchimici che riforniscono la filiera della plastica, esposte al rischio di inquinamento atmosferico da sostanze tossiche. Di questi, 16 milioni risiedono nel raggio più critico di 5 chilometri. La ricerca, dal titolo “Every Breath You Take”, analizza il livello intermedio della produzione, dove i combustibili fossili vengono trasformati in materie prime plastiche, mappando gli impianti in Thailandia, Filippine, Malesia, Indonesia, Corea del Sud, Canada, USA, Germania, Regno Unito, Svizzera e Paesi Bassi. Aree residenziali sono state individuate entro 10 km dagli impianti in tutti i Paesi considerati, denotando una coesistenza forzata tra comunità e industrie inquinanti.

Gli autori del rapporto mettono in rilievo che la fase «midstream» della produzione – gli impianti che trasformano combustibili fossili in monomeri e resine – è una fonte consistente di emissioni: composti organici volatili (VOCs), ossidi di azoto e zolfo, particolato e gas serra, molte sostanze collegate a cancro, malattie respiratorie e danni riproduttivi. L’analisi geospaziale di Greenpeace ha incrociato la posizione degli stabilimenti con dati di densità di popolazione per stimare chi vive in zone di «rischio elevato» (5 km) e «rischio esteso» (10 km). Gli Stati Uniti detengono il numero assoluto più alto di persone a rischio: oltre 13 milioni, con concentrazioni particolarmente elevate in Texas e Louisiana. Tuttavia, in termini percentuali, sono i Paesi Bassi a registrare la situazione più critica, con circa 4,5 milioni di persone (oltre un cittadino su quattro, il 25.8% della popolazione) che vive entro 10 km da un impianto. Segue la Svizzera, dove il 10.9% degli abitanti è nella stessa condizione di rischio. Il rapporto sottolinea inoltre che l’inquinamento non conosce confini: «Border zone areas in Canada, Germany, Malaysia, the Netherlands, Switzerland, and the United States contain petrochemical production facilities located within 10 kilometers of neighbouring countries», con ricadute sulle comunità di Austria, Polonia, Singapore, Belgio e Francia.

Il report presenta casi studio emblematici di queste “zone di sacrificio”, come definito dalle Nazioni Unite. In Louisiana, la celebre “Cancer Alley” ospita circa 200 impianti lungo il Mississippi e registra tassi di cancro di molto superiori alla media nazionale. In Canada, la “Chemical Valley” a Sarnia, Ontario, sorge a fianco della riserva della First Nation Aamjiwnaang, dove si respirano livelli di benzene sopra i limiti di sicurezza e si segnalano alti tassi di aborti spontanei e malattie respiratorie infantili. In Corea del Sud, lo scandalo del complesso industriale di Yeosu ha portato alla luce una collusione tra aziende e agenzie di misurazione per manipolare i dati sulle emissioni di inquinanti, tra cui il vinile cloruro, un cancerogeno di gruppo 1.

Greenpeace avverte che la crisi non è confinata al problema dei rifiuti: la produzione stessa sta crescendo, con previsioni che vedono raddoppi o più della produzione di plastica entro il 2050, e gran parte dell’espansione è destinata a articoli a breve vita (packaging monouso, fast fashion), incrementando emissioni e rifiuti esportati verso Paesi a basso reddito. Tale scenario rischia di creare nuove “zone di sacrificio” e di compromettere anche gli obiettivi climatici, poiché la plastica diventa la scommessa del settore fossile per compensare il calo di altri mercati. Per fermare questa catena, l’organizzazione chiede un intervento internazionale deciso: «Abbiamo bisogno di un forte Trattato Globale sulla Plastica, che riduca la produzione di plastica di almeno il 75% entro il 2040 per proteggere la nostra salute, le nostre comunità e il pianeta», si legge all’interno della ricerca.

Nonostante lo spaccato si faccia sempre più allarmante, lo scorso agosto è terminato con un nulla di fatto il vertice di Ginevra per redigere un trattato globale contro l’inquinamento della plastica. Gli incontri si sono tenuti per dieci giorni consecutivi, con oltre 1.400 delegati provenienti da 183 Paesi diversi. Sebbene siano stati proposti due distinti testi, entrambi giudicati peraltro troppo poco ambiziosi dalle associazioni ambientaliste, al termine della seduta è mancata l’intesa per siglare la versione definitiva, con il comitato che ha deciso di rinviare i negoziati a data da destinarsi. «L’incapacità di raggiungere un accordo a Ginevra deve essere un campanello d’allarme per il mondo», ha scritto Graham Forbes, capo della delegazione di Greenpeace per i negoziati del Trattato. Secondo il gruppo, un accordo tra i Paesi non può rimanere ostaggio degli Stati e delle multinazionali petrolifere, e deve tenere conto dell’intero ciclo di vita della plastica, della sua produzione, dei danni ambientali e per la salute umana, nonché delle esigenze delle comunità indigene, che risultano le più colpite dalla crisi.

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Stefano Baudino

Laureato in Mass Media e Politica, autore di dieci saggi su criminalità mafiosa e terrorismo. Interviene come esperto esterno in scuole e università con un modulo didattico sulla storia di Cosa nostra. Per L’Indipendente scrive di attualità, politica e mafia.

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