martedì 23 Settembre 2025

Il Pentagono impone la censura: vietato divulgare notizie non autorizzate

Il Pentagono ha introdotto nuove restrizioni per l’accesso dei media, come annunciato in un memorandum diffuso dal portavoce capo Sean Parnell e anticipato già a maggio dal Segretario della Guerra, Pete Hegseth. Le direttive obbligano i giornalisti accreditati a firmare un impegno formale con cui dichiarano di non poter diffondere informazioni non autorizzate senza l’approvazione preventiva di un funzionario designato. A differenza del passato, quando la stampa godeva di un accesso quasi illimitato e paragonabile a quello del Campidoglio, con la possibilità di muoversi liberamente all’interno dell’edificio e intercettare funzionari o generali in visita, d’ora in poi l’accesso sarà rigidamente regolato e controllato. Le nuove credenziali sostituiranno quelle esistenti e saranno soggette a rinnovi più frequenti, mentre il transito all’interno del Pentagono verrà limitato a zone prestabilite, spesso solo se accompagnati da personale autorizzato. In caso di violazione, la sanzione sarà il ritiro immediato dell’accredito e l’esclusione dalla copertura giornalistica delle attività del Dipartimento della Guerra (nuovo nome del Dipartimento della Difesa). Il provvedimento riguarda non solo le informazioni classificate, ma anche quelle considerate “sensibili” o “non autorizzate”, una definizione volutamente ampia che affida al Pentagono il potere di stabilire cosa può o non può essere pubblicato.

Il portavoce del Pentagono, Sean Parnell, ha giustificato le nuove direttive con la necessità di rafforzare la sicurezza operativa e prevenire fughe di notizie sensibili. Hegseth su X ha voluto invece rimarcare la natura politica del cambio di passo, dichiarando che la stampa non ha alcun diritto di dettare le regole all’interno dell’edificio simbolo della difesa americana: «Non è la stampa a gestire il Pentagono, ma il popolo. O si seguono le regole o si va a casa». Le reazioni non si sono fatte attendere e hanno attraversato il mondo dell’informazione come un fulmine. Giornalisti, associazioni e sindacati della stampa hanno parlato apertamente di censura preventiva, considerata dalla giurisprudenza statunitense una delle violazioni più gravi della libertà di stampa, richiamando il principio del Primo Emendamento della Costituzione americana. Il National Press Club ha chiesto al Pentagono di revocare le nuove regole e ha sottolineato che, se ogni notizia deve ottenere il timbro del governo prima della pubblicazione, i cittadini finiranno per leggere soltanto ciò che le autorità vogliono rendere pubblico. La Society of Professional Journalists ha definito la misura un caso da manuale di “prior restraint” (“censura preventiva”), espressione che indica nel diritto costituzionale statunitense qualsiasi misura con cui lo Stato impedisce in anticipo la pubblicazione o la diffusione di informazioni, articoli o notizie. Anche i grandi quotidiani americani, dal Washington Post al New York Times, hanno espresso preoccupazione per l’impatto di queste misure, che rischiano di ridurre il giornalismo a mera cassa di risonanza della propaganda ufficiale. Il dibattito ha assunto subito una dimensione politica, con l’amministrazione pronta a difendere la scelta in nome della sicurezza nazionale, mentre le organizzazioni per i diritti civili avvertono che la definizione troppo ampia di “informazioni non autorizzate” potrebbe trasformarsi in un grimaldello per colpire qualsiasi inchiesta scomoda. Il nodo costituzionale rimane centrale: imporre l’approvazione preventiva anche su materiale non classificato significa di fatto alterare l’equilibrio tra potere esecutivo e libertà di informazione, creando un precedente che mina l’indipendenza della stampa e rischia di restringere lo spazio di trasparenza all’interno delle istituzioni democratiche.

Non si tratta di un fulmine a ciel sereno. Negli ultimi anni, il rapporto tra Pentagono e media si era già irrigidito, con restrizioni crescenti sull’accesso degli inviati, limitazioni logistiche e una progressiva riduzione degli spazi di autonomia. Con le direttive di Hegseth, però, la soglia è stata superata: non si parla più soltanto di accesso contingentato, ma di controllo diretto sui contenuti. È un passaggio che ridefinisce il confine tra sicurezza nazionale e diritto a informare, segnando un punto di non ritorno nelle relazioni tra potere militare e stampa. I rischi sono evidenti. La nuova disciplina può indurre testate e giornalisti a praticare l’autocensura pur di mantenere l’accredito, riducendo la capacità di portare alla luce scandali, abusi o decisioni discutibili. Il controllo pubblico sulle operazioni militari, già difficile in un contesto dominato dal segreto, rischia così di diventare quasi impossibile. Inoltre, l’esempio del Pentagono potrebbe aprire la strada a misure analoghe in altre agenzie federali, contribuendo a diffondere una cultura della segretezza istituzionalizzata. Sul piano giuridico non è escluso che la partita si sposti presto nei tribunali, con associazioni e gruppi per i diritti civili pronti a contestare la costituzionalità del memorandum. Il Congresso potrebbe a sua volta intervenire, se la pressione dell’opinione pubblica dovesse crescere. Nel frattempo, a livello internazionale, la vicenda rischia di minare ulteriormente l’immagine degli Stati Uniti come paladini della libertà di stampa, proprio in un’epoca in cui Washington rivendica di difendere i valori democratici contro i regimi autoritari ma, si sta incamminando progressivamente lungo la china della deriva autoritaria, strumentalizzando l’omicidio di Charlie Kirk per silenziare i “nemici” interni, punire il dissenso e militarizzare il Paese. Il cambio di nome del Dipartimento della Difesa in “Dipartimento di Guerra” non è soltanto simbolico: in tempi di conflitto e disordine mondiale, anche la libertà di stampa viene compressa, fino a rischiare di soccombere. Il bavaglio imposto al Pentagono non è quindi soltanto una questione interna, ma un banco di prova che riguarda l’intero sistema democratico. La posta in gioco è chiara: la possibilità, per i cittadini americani e per l’opinione pubblica mondiale, di continuare ad accedere a informazioni libere, pluralistiche e indipendenti sulle decisioni del Paese più potente del mondo.

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Enrica Perucchietti

Laureata con lode in Filosofia, vive e lavora a Torino come giornalista, scrittrice ed editor. Collabora con diverse testate e canali di informazione indipendente. È autrice di numerosi saggi di successo. Per L’Indipendente cura la rubrica Anti fakenews.

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