Sono accusati di essere a capo di uno dei più potenti clan di Camorra, ma a causa della lentezza del processo che li riguarda e la decorrenza dei termini di custodia cautelare sono a piede libero. È la storia che riguarda i 15 imputati al processo contro la famiglia Moccia, su cui ha messo il timbro il Tribunale del Riesame di Napoli, respingendo l’appello dei pm. Tra gli scarcerati ci sono anche i fratelli Antonio, Luigi e Gennaro Moccia, che secondo la Procura siederebbero ai vertici del clan di Afragola. Il processo, avviato nel 2022 con 48 imputati, ha accumulato lunghi ritardi: questioni di competenza territoriale, sospensioni e oltre 60 udienze hanno impedito di arrivare a una sentenza nei tre anni previsti dalla custodia cautelare. Il dibattimento proseguirà dunque con i suoi più importanti protagonisti in libertà.
In seguito al rinvio a giudizio del luglio 2022, il procedimento contro il clan Moccia, inizialmente assegnato al tribunale di Aversa, è stato trasferito a Napoli per incompetenza territoriale nel gennaio 2023. Da allora, il processo è progredito lentamente presso la settima sezione penale napoletana, con decine di udienze celebrate e un enorme volume di atti da esaminare. Il nodo cruciale riguarda il computo della durata della custodia cautelare, già sospesa a giugno 2023. La difesa ha sollevato la questione della sua scadenza, sostenendo che il termine massimo di tre anni sia scaduto il 25 luglio 2024, calcolato a partire dal decreto di giudizio immediato. La sesta sezione penale, competente per il periodo feriale, ha accolto questa tesi in due provvedimenti, ritenendo il tetto dei tre anni «insuperabile».
La Procura ha impugnato la decisione, avanzando un’interpretazione differente: il termine dovrebbe decorrere non dalla data iniziale, ma dal successivo trasferimento degli atti a Napoli (gennaio 2023), il che posticiperebbe la scadenza al 2026. Tuttavia, il Tribunale del Riesame ha respinto questo ricorso. Alcuni imputati restano sottoposti a misure restrittive come il divieto di dimora in Campania e Lazio, aree ritenute cruciali per gli affari del clan. In attesa delle motivazioni formali, la Procura sta ora valutando di presentare un ricorso alla Corte di Cassazione. Nel frattempo, il collegio della settima sezione penale, nell’udienza del 16 settembre, ha stabilito di celebrare quattro udienze a settimana per i prossimi due mesi – 32 udienze in 60 giorni – per evitare ulteriori cambi di collegio dopo il trasferimento del giudice Michele Ciambellini alla Procura generale della Cassazione.
Il clan Moccia è descritto come un’élite della camorra, una dinastia criminale potentissima le cui radici risalgono agli anni ’70. A differenza dei clan dediti a una violenza plateale, i Moccia hanno evoluto il loro potere, basandolo non sulla ferocia (pur avendo alle spalle una lunga e sanguinosa faida familiare) ma su un’enorme disponibilità di capitali liquidi e sulla capacità di infiltrare l’economia legale. La loro forza risiede in una solida struttura familiare: non sono un semplice clan, ma una confederazione camorristica con un vastissimo territorio di influenza che si estende dalla cintura nord di Napoli fino a Roma, dove riciclano capitali in attività di lusso. Sono specializzati in settori ad alto reddito come gli appalti pubblici a livello nazionale e, come dimostra l’inchiesta “Petrol-mafie Spa”, nel business dei carburanti, dove hanno costruito un impero economico basato su frodi fiscali.
Non è la prima volta che mafiosi di calibro riescono a uscire di galera per decorrenza dei termini. Nell’ottobre del 2024 era toccato a Giuseppe Corona, 56 anni, noto come “il re delle scommesse” di Palermo, condannato in appello a 15 anni e 2 mesi per riciclaggio e intestazione fittizia. Era stato arrestato sette anni fa e ritenuto parte del vertice dei mandamenti di San Lorenzo e Resuttana, riciclando capitali in centri scommesse, compro oro e pegni. Detenuto al 41-bis, è stato scarcerato dopo che la corte d’Appello ha accolto la richiesta dei suoi difensori, con divieto di dimora in Sicilia. Pochi giorni prima, nonostante le condanne non definitive subìte, per la scadenza dei termini di custodia cautelare erano stati scarcerati 11 fedelissimi di Matteo Messina Denaro. Tra loro, anche due boss che erano reclusi al 41 bis, ovvero Nicola Accardo (condannato a 10 anni) e Vincenzo La Cascia (condannato a 9 anni e 8 mesi). Più di recente, nel maggio di quest’anno, a essere liberati per decorrenza dei termini sono stati due imputati del maxi-processo Rinascita-Scott, il più grande procedimento mai celebrato contro la ’ndrangheta vibonese, ovvero Andrea Prestanicola e Gregorio Gasparro, ritenuto esponente apicale della ‘ndrina di San Gregorio d’Ippona. Anche lui era recluso al 41-bis.