venerdì 19 Settembre 2025

O’scià: il respiro di Lampedusa

O’scià vuol dire respiro. È il saluto che accoglie chi arriva a Lampedusa, l’isola-frontiera che da anni porta sulle spalle il peso delle rotte migratorie del Mediterraneo. 

Insieme a Giulia Cicoli, cofounder di Still I Rise, siamo andate a Lampedusa a fine luglio con un obiettivo preciso: guardare da vicino un luogo che troppo spesso viene raccontato solo nei momenti di tragedia e provare a capire cosa significa vivere e arrivare su questa soglia d’Europa. 

Dal primo giorno abbiamo visto che Lampedusa è un paradosso. Qui non si nasce: non ci sono ostetriche né ospedale e le residenti devono spostarsi a Palermo o Agrigento per partorire. Gli unici bambini che oggi nascono davvero sull’isola sono quelli delle donne migranti, venuti alla luce durante gli sbarchi. Se nascere è raro, morire è purtroppo frequente — come ci ricordano anche le notizie di naufragi di questo agosto. Al cimitero abbiamo trovato tombe senza nome, vite custodite in celle frigorifere in attesa di trasferimento, storie che non diventano notizia ma che restano incise nella memoria dell’isola. 

Abbiamo assistito anche agli sbarchi. In pochi minuti uomini, donne e bambini vengono condotti al molo, sotto lo sguardo delle forze dell’ordine e degli operatori. La prima richiesta è sempre la stessa: «Avete Wi-Fi?». Non è un dettaglio, ma il segno che il bisogno più urgente, dopo la paura e il silenzio del mare, è dire a casa: «Sono vivo». Accanto a loro la società civile offre ciabatte, tè caldo, piccoli gesti di umanità. Ma tutto avviene in fretta: in 24 ore le persone vengono trasferite altrove. Come è possibile, in così poco tempo, informare sui diritti, garantire cure, riconoscere vulnerabilità? È la crepa che più ci interroga, perché qui la frontiera non è mai neutra: è un dispositivo che seleziona, incasella, esclude. 

Eppure Lampedusa non è solo dolore. Abbiamo incontrato Agricola Mpidusa, una cooperativa che pianta semi in una terra difficile, creando lavoro e comunità. È la dimostrazione che anche su quest’isola di passaggi e partenze ci sono energie che resistono, che costruiscono futuro. Il nostro viaggio si è concluso alla Porta d’Europa, il monumento che guarda al mare e che ricorda a tutti che da qui tutto comincia e tutto finisce. Ed è proprio lì che abbiamo capito perché eravamo arrivate: per raccogliere un filo che non può spezzarsi. 

Come Still I Rise, vogliamo seguire le traiettorie delle migrazioni lungo tutto il loro percorso. Da Lampedusa, punto di approdo e di transito, continueremo a osservare cosa accade dopo: nei centri di accoglienza in Sicilia, nelle città italiane dove i migranti cercano di ricostruire la propria vita, lungo le rotte europee che troppo spesso si trasformano in muri invisibili. 

Perché la migrazione non è un episodio isolato, non è “un’emergenza”: è un fenomeno strutturale, che attraversa i confini e ci riguarda tutti. Raccontarla significa restituire un’immagine reale e onesta di questo sistema, significa sottolineare i successi ma anche le mancanze, che non colpiscono solo i migranti ma raccontano molto anche dell’Italia, delle sue fragilità e delle sue contraddizioni. 

Lasciamo Lampedusa con più domande che risposte, ma con la certezza di un compito: continuare a guardare, ascoltare, testimoniare. Perché finché ci sarà chi attraversa il mare, ci dovrà essere chi sceglie di non voltarsi dall’altra parte. E questo è solo l’inizio.

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Still I Rise

Still I Rise è un’organizzazione no-profit internazionale, che offre istruzione di eccellenza ai bambini profughi e vulnerabili in vari Paesi, con l’obiettivo di porre fine alla crisi scolastica globale. Completamente indipendente, Still I Rise è stata fondata nel 2018 ed è guidata da Nicolò Govoni.

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