Dopo Francia e Germania, anche l’Italia si muove per garantire la sicurezza degli ospedali in caso si verificasse un conflitto militare. Il governo Meloni sta studiando un piano che coinvolge Ministero della Salute, Difesa e Infrastrutture, che ha portato all’istituzione di un tavolo tecnico interministeriale che si è già riunito un paio di volte dall’estate e ha avviato le prime interlocuzioni per definire una strategia sulla resilienza in campo sanitario. Mentre cresce la tensione per il conflitto russo-ucraino e gli scenari geopolitici si fanno sempre più instabili, in Europa diversi Paesi si attrezzano a non voler più lasciare nulla al caso sul fronte della sanità in tempo di guerra: aggiornano i piani di crisi, definiscono protocolli congiunti tra enti civili e Difesa, individuano strutture e reparti alternativi da attivare in caso di emergenza per essere pronti a fronteggiare l’imprevedibile. Francia e Germania hanno già avviato misure concrete. A Parigi, una circolare del ministero della Salute ha chiesto alle agenzie sanitarie regionali di predisporre, in collaborazione con la Difesa, strutture straordinarie capaci di gestire un afflusso massiccio di feriti, civili e militari, in caso di escalation. Berlino, dal canto suo, lavora a un piano nazionale di difesa civile che mira a preparare gli ospedali all’eventualità di un conflitto su larga scala, con programmi di formazione specifici per il personale medico: dal trattamento di ferite da esplosione a traumi complessi e amputazioni, fino alla definizione di criteri rigorosi per garantire la continuità dell’assistenza anche in condizioni estreme.
L’Italia non è rimasta a guardare e con un apposito decreto di aprile scorso (che attua il Dlgs 134/2024 a sua volta in attuazione della direttiva europea 2022/2557) ha istituito un tavolo tecnico al ministero della Salute presso l’ufficio di gabinetto, un organismo con dieci componenti, con l’obiettivo di «definire una strategia sulla resilienza in campo sanitario che stabilisca ruoli e responsabilità dell’insieme degli organi, istituzioni ed enti coinvolti» nella predisposizione di piani e misure per la gestione di emergenze sanitarie su vasta scala. Il piano prevede anche scenari validi non solo di guerra “frontale”, ma anche in presenza di eventi CRBN (Chimici, radiologici, biologici e nucleari) oppure, in ipotesi di attivazione degli articoli 3 e 5 del Trattato Atlantico (cioè, l’impegno collettivo previsto per i Paesi membri della NATO). Fra le linee guida che emergono dalle discussioni c’è l’idea di rafforzare la collaborazione fra sanità civile e medica militare, definire catene di comando chiare in situazioni estreme, attivare esercitazioni congiunte e percorsi formativi che preparino il personale ad affrontare traumi di guerra, grandi evacuazioni, collegamenti con ospedali da campo o strutture esterne. Si discute anche di tre fasi operative: accoglienza dell’arrivo delle truppe (o del coinvolgimento militare), mobilità interna in caso di crisi, partecipazione in missioni all’estero con eventuale rientro per le cure. Rimangono ancora diverse questioni aperte. Non è chiaro quali ospedali saranno designati come poli di riferimento per la gestione del trauma da guerra su vasta scala, né come sarà definito l’assetto di risorse, personale e reparti specializzati. Alcune strutture (ospedali come il Niguarda di Milano) che già operano in emergenze nazionali sono citate come possibili hub, ma serve trasparenza sugli standard che si chiederanno, su come verranno integrate le risorse militari con quelle civili, e su quanto rapido possa essere il passaggio da uno stato “regolare” a uno di emergenza. Difficoltà maggiori sono previste nella definizione delle responsabilità fra ministeri, regioni, Protezione civile, Difesa e altre agenzie, così come nella reperibilità di fondi straordinari e nell’adeguamento infrastrutturale (adeguamenti strutturali, sistemi antibomba, reparti CRBN, presidi mobili).
In un clima crescente di militarizzazione e di tensione prebellica, l’Italia, costretta a rincorrere gli esempi di Francia e Germania, si muove dentro un paradosso evidente: da anni si tagliano fondi, posti letto e personale alla sanità pubblica, mentre oggi si invoca la necessità di approntare ospedali da guerra, addestrare medici a traumi bellici e predisporre protocolli per scenari da conflitto mondiale. Invece di rafforzare davvero la sanità pubblica e di restituirle risorse, il governo preferisce seguire i diktat europei e atlantici, adattando la popolazione a un orizzonte di paura e rassegnazione. Il nostro Paese si trova ora di fronte a una sfida che è innanzitutto politica: far maturare nella popolazione la persuasione che, pur non essendo in guerra, il rischio esiste e la preparazione preventiva è un esercizio necessario. È l’ennesimo cortocircuito che rivela come il paradigma emergenziale sia ormai la chiave con cui si governa la società: ogni pretesto viene sfruttato per inoculare paura e per spingere i cittadini ad accettare misure eccezionali come se fossero inevitabili. Il rischio è che l’opinione pubblica venga trascinata in un clima di psicosi permanente: prima il Covid, ora la guerra. Lo schema si ripete identico, tra stati d’eccezione e narrazioni apocalittiche, fino a rendere l’emergenza una condizione permanente. Il vero pericolo, però, non è solo la guerra che incombe, ma la guerra psicologica che prepara i cittadini a viverla come destino ineluttabile.
sono tutti pazzi, ci faranno entrare in guerra e aggireranno la responsabilità elettorale invocando lo stato di emergenza? vogliamo davvero andare dietro agli USA come pecore? vogliamo davvero metterci contro la parte del pianeta che sta emergendo infilandoci in una guerra con alleati che valgono zero? voglio uscire dalla Nato, voglio un Italia fuori dalla UE e dall’euro, non voglio che l’Italia dia armi all’Ucraina nè a Israele, voglio essere neutrale. Sono l’unico?!?!?!?!
sei in buona compagnia siamo in mano a un gruppo di esaltati!
Esiste un altro tra tutti i lettori che collega l’epidemia di Coronavirus con la presa di posizione di Trump 1 contro la Cina e ritiene che se continuiamo su questa strada, di ostacolare violentemente il progresso della Cina ( e ogni altro paese in crescita ) perché temiamo che ci superi, per cui poi non potremo più imporre le nostre bugie e le nostre ingiustizie al mondo impunemente, finiamo tutti nell’al di là?
Gentile Perucchietti , condivido la sua analisi e la ringrazio per il suo articolo .