Oggi, mercoledì 3 settembre, la Commissione Giustizia della Camera statunitense ha annunciato un’audizione dal titolo eloquente: La minaccia dell’Europa alla libertà di parola e all’innovazione americana. Si tratta dell’ultimo passo in un’escalation che vede l’amministrazione Trump schierarsi apertamente contro la normativa europea destinata a incidere sugli interessi delle Big Tech, con un approccio fondato sullo strumento del bullismo istituzionale e sulla sempreverde minaccia di nuovi dazi.
Nel mirino delle autorità statunitensi figurano il Digital Services Act (DSA) e il Digital Markets Act (DMA), insieme ai loro omologhi britannici, l’Online Safety Act (OSA) e il Digital Markets, Competition and Consumers Act (DMCC). La Commissione ritiene che queste norme “prendono di mira le aziende americane e danneggiano l’innovazione”, una posizione che riflette senza dissonanze il tono assunto di recente dall’intera Casa Bianca. Per intuire dove si voglia andare a parare, basta guardare alla lista degli osservatori esteri che sono stati invitati: Nigel Farage, politico di estrema destra che ha buone possibilità di essere il nuovo Primo Ministro del Regno Unito, e Thierry Breton, ex commissario europeo per il Mercato interno.
L’orientamento politico è chiaro: Washington intende usare la leva dei dazi per piegare le legislazioni straniere ai propri interessi. Non si tratta di un’interpretazione, ma di un messaggio che è stato formulato fin troppo esplicitamente. Il 21 agosto, il presidente della Commissione federale per il commercio (FTC), Andrew Ferguson, ha inviato alle grandi aziende tecnologiche una lunga lettera piena di retorica in cui le invita a ignorare tutte le norme europee che potrebbero impattare sulla libertà di parola statunitense — un concetto volutamente vago che concede ampio margine per contestare in pratica qualsiasi regolamentazione del web.
Pochi giorni più tardi, il 26 agosto, Donald Trump ha alzato ulteriormente i toni sul suo social network Truth Social: «in qualità di Presidente degli Stati Uniti, terrò testa alle nazioni che attaccano le nostre strepitose aziende tech americane», ha scritto richiamando esplicitamente il DSA e il DMA. «Avviso tutte le nazioni con tasse digitali, legislazioni, regole e regolamenti che, qualora queste misure discriminatorie non vengano ritirate, in qualità di Presidente degli Stati Uniti, imporrò ulteriori tasse consistenti sulle esportazioni di queste nazioni verso gli USA e limiterò le esportazioni nei loro confronti della nostra tecnologia protetta e dei chip».
Tierry Breton ha declinato l’invito a partecipare all’audizione odierna della Camera dei Rappresentanti, ufficialmente a causa di impegni pregressi. Una decisione che reitera una tacita posizione già espressa a fine luglio, quando il presidente della Commissione Giustizia Jim Jordan aveva tentato di incontrarlo a Bruxelles, incappando in un garbato rifiuto. Più diretta, invece, è Henna Virkkunen, vicepresidente esecutiva della Commissione europea e commissaria per le Tecnologie digitali: «il DSA e il DMA sono leggi sovrane. Non discriminatorie, applicabili a tutte le piattaforme online in Europa. Proteggono pienamente i nostri diritti fondamentali, compresa la libertà di espressione. Continuerò a farle rispettare, per i nostri figli, i nostri cittadini e le nostre imprese», ha scritto su X.
Nonostante i tentativi europei di ricomporre le tensioni sui dazi, Washington ha continuato a rivendicare la libertà di rimettere in discussione gli accordi commerciali, facendo leva sulla coercizione economica per piegare le istituzioni europee. L’abbandono della cosiddetta “web tax” non è stato sufficiente a sedare il sedicente alleato: l’amministrazione Trump chiede di più, sostenuta da un ristretto ma potentissimo gruppo di aziende che trainano integralmente l’attuale crescita economica statunitense. In vista delle elezioni di metà mandato, queste stesse corporation si preparano peraltro a rafforzare la propria influenza politica, lanciando due nuovi Super PAC, giganteschi comitati di raccolte fondi che sono capaci di convogliare enormi risorse finanziarie per oliare gli ingranaggi della politica. La questione, insomma, sembra essere lontana dal trovare una soluzione pacifica.