martedì 2 Settembre 2025

“Dove non arrivano i governi possono i popoli”: intervista alla Global Sumud Flotilla

Le ultime navi della Global Sumud Flotilla sono pronte per unirsi al convoglio partito il 31 agosto in direzione di Gaza, con lo scopo di portare aiuti umanitari nella Striscia. Cinquanta imbarcazioni, settecento attivisti in viaggio, e trecento tonnellate di aiuti umanitari raccolte in cinque giorni nella sola città di Genova: è questo l’ingente movimento che proverà ancora una volta a rompere l’assedio israeliano a Gaza. L’iniziativa costituisce il più grande sforzo umanitario di sempre per raggiungere la Palestina via mare, per arrivare là dove i governi non vogliono arrivare. Israele, dal canto suo, ha già preparato un piano per bloccare il convoglio e impedirgli di raggiungere la Striscia, affermando senza mezzi termini che gli attivisti a bordo delle navi verranno trattati come «terroristi». Abbiamo parlato della missione con Maria Elena Delia, portavoce del movimento in Italia.

Come è nata l’iniziativa della Global Sumud Flotillla? Quali sono gli scopi e il messaggio politico che c’è dietro?

L’iniziativa della Global Sumud Flotilla è nata al ritorno della Global March to Gaza, a metà giugno, quando migliaia di persone provenienti da tutto il mondo hanno cercato di marciare pacificamente verso il valico di Rafah, dove fino a qualche mese fa entravano gli aiuti umanitari. Tornati dall’Egitto, ci siamo resi conto che un risultato l’avevamo ottenuto: si era creato nuovamente un enorme e coeso movimento internazionale, che oggi si chiama Global Movement to Gaza. Visto che non siamo riusciti ad aprire un corridoio umanitario via terra, abbiamo pensato di riaprirlo via mare, come dal 2008 prova a fare la Freedom Flotilla Coalition. La differenza con le precedenti missioni della Freedom Flotilla è la dimensione: se prima a provare ad arrivare a Gaza erano una o due barche, in questo caso le barche saranno quasi 50 con a bordo tra le 600 e 700 persone. Il numero di partecipanti dà l’idea del messaggio politico che vogliamo lanciare a quei governi e quelle istituzioni che stanno in silenzio da quasi due anni: i cittadini non sono più disposti a non fare niente, anche a costo di intraprendere in prima persona una missione pericolosa. L’obiettivo è semplice: dire no al genocidio, rompere il blocco di Gaza, e chiedere a gran voce la riapertura dei corridoi umanitari istituzionali.

I detrattori dell’iniziativa sostengono che la missione sarebbe velleitaria, che non servirebbe a niente. C’è anche chi l’ha criticata per la scarsa presenza di palestinesi a bordo, come a ipotizzare che non vi sia il consenso palestinese. Come rispondete alle critiche?

In verità uno dei fautori dell’iniziativa è palestinese; e in barca di palestinesi ce ne sono diversi. Poi è ovvio, è una iniziativa che parte da un movimento che raduna persone di tutto il mondo: europei, nordafricani, persone del Sudest asiatico, del Sud America… ci sono rappresentanti da più di 44 Paesi del mondo. È poi vero che è una iniziativa che non parte dalla Palestina, ma quali sono le iniziative umanitarie di questi detrattori che lo fanno? Se invece vogliamo andare a ragionare sull’efficacia, posso dire che è dal 1948 che per la Palestina va sempre peggio: evidentemente anche tutte le altre modalità di intervento non sono riuscite a ottenere qualcosa. Le barche della Freedom Flotilla provano a fare quello che stiamo facendo noi dal 2008; in quell’agosto si riuscì a rompere l’assedio di Gaza. Se dobbiamo stare a dire che tanto non serve a niente, allora rimaniamo davanti alla televisione a non fare nulla.

A proposito del messaggio politico di cui parlavamo prima: come rappresentanza italiana avete avuto un confronto con il governo italiano o con il ministero degli Esteri?

No, nessuno si è fatto sentire; mi preme ricordare che noi stiamo per compiere una iniziativa del tutto legale, perché le acque in cui navigheremo sono internazionali. Non c’è alcun bisogno di contattare il governo. Certo, ci aspettavamo che dopo le dichiarazioni del ministro della Sicurezza nazionale israeliano, Ben Gvir, che ha detto che gli attivisti a bordo delle navi saranno trattati alla stregua di terroristi, ci arrivasse una chiamata di sostegno da parte del nostro governo, ma non è ancora arrivata. Naturalmente speriamo che nel momento in cui dei cittadini italiani si dovessero trovare nella piena legittimità delle loro azioni a essere sequestrati e incarcerati, il nostro esecutivo, che ha il dovere di proteggerci e di tutelarci, si muova per farlo.

E come movimento globale? Quei leader internazionali che sono generalmente percepiti come sostenitori della causa hanno mostrato apertura per fornire una qualche forma di supporto? 

La maggior parte dei Governi ha taciuto, come a fornire un lasciapassare a Israele per agire indisturbata. Però c’è chi ha sostenuto la lotta dal basso pubblicamente. Il primo ministro spagnolo Pedro Sánchez ha dichiarato che la Spagna farà di tutto per proteggere e tutelare i suoi cittadini a bordo delle imbarcazioni. Anche il presidente colombiano Gustavo Petro ha inviato un messaggio di solidarietà, così come il governo malese, da sempre al fianco della questione palestinese. Non si tratta di aiuti “concreti” come potrebbe essere un finanziamento, ma sono dichiarazioni politiche forti, specialmente di fronte a quanto detto da Ben Gvir. Anche perché una volta che sono state rilasciate pubblicamente, si è tenuti a onorarle.

Riguardo alle dichiarazioni di Ben Gvir: se doveste venire intercettati, come vi comportereste?

Io stessa in questo momento sto svolgendo un training obbligatorio di comportamento non violento assieme agli attivisti che partiranno dalla Sicilia. Noi siamo nel giusto, siamo nella legalità. Insomma, non faremmo niente. Non forzeremmo nulla, ma ci fermeremmo e ci limiteremmo ad alzare le mani; e se ci dovessero chiedere di tornare indietro ci rifiuteremmo, perché Israele non ha la potestà di imporre le proprie decisioni in acque internazionali. Dopodiché, sono i nostri governi a dovere intervenire e a dovere dire che noi abbiamo tutto il diritto di andare avanti, perché altrimenti si crea un precedente pericoloso: il problema non siamo noi, il problema è che nel momento in cui si concede a uno Stato di contravvenire a una regola che tutti gli altri Paesi devono rispettare, si crea una iniquità, uno squilibrio. Oggi tocca ai palestinesi, domani chissà a chi.

C’è qualcosa che volete comunicare a tutti coloro che vi hanno sostenuto e che rimarranno a terra?

L’unica cosa che mi sento di aggiungere è che, al di là di ogni retorica, l’ondata di solidarietà che abbiamo riscontrato ci ha davvero sconvolto positivamente. E come facciamo ogni volta che possiamo, chiediamo a tutte e a tutti di sostenerci nel momento in cui le comunicazioni dovessero saltare o se dovesse succedere qualcosa a queste barche. Non per noi, ma per il fatto che siamo strumenti al servizio dei palestinesi: scendete in piazza, chiedete a chi di dovere di intervenire quando noi non potremo farlo perché ci avranno bloccato le comunicazioni. Tutti insieme, forse, ce la possiamo fare.

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Dario Lucisano

Laureato con lode in Scienze Filosofiche presso l’Università di Milano, collabora come redattore per L’Indipendente dal 2024.

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