Per la prima volta, Google ha reso pubblica un’analisi dettagliata sull’impatto energetico e ambientale della sua intelligenza artificiale di punta, Gemini. L’iniziativa segna un momento storico nel settore, non tanto per le cifre in sé, quanto per l’inedita apertura di un colosso tecnologico su un tema che fino ad oggi era rimasto in gran parte avvolto dall’opacità. Le aziende che detengono il controllo dei modelli linguistici di grandi dimensioni si sono infatti mostrate sempre riluttanti a condividere dati concreti, costringendo i ricercatori indipendenti a lavorare su stime, proiezioni e calcoli teorici. Nel presentare i risultati, Google ha dipinto il quadro con toni marcatamente virtuosi, omettendo informazioni che permetterebbero di tratteggiare un ritratto definitivo del fenomeno, tuttavia rimane la possibilità che questo passo apra la strada a un futuro di maggiore dialogo tra mondo accademico e Big Tech, con metriche più condivise e confrontabili.
Secondo i dati diffusi, una singola richiesta testuale a Gemini comporterebbe un consumo di 0,24 wattora, che Google paragona a “meno di nove secondi passati davanti a un televisore”, uno sforzo che viene accompagnato da un utilizzo di acqua pari 0,26 millilitri, “l’equivalente di cinque gocce”, e circa 0,03 grammi di emissioni di anidride carbonica equivalente. Numeri che, nell’ottica dell’azienda, confermano l’efficienza raggiunta dal sistema: tra il maggio 2024 e il maggio 2025, l’impatto energetico medio di un prompt si sarebbe ridotto di 33 volte, mentre quello in termini di carbonio di ben 44 volte.
L’indagine non è stata sottoposta a revisione paritaria, quindi i suoi contenuti non sono ancora stati verificati da accademici terzi, tuttavia è plausibile che le cifre siano corrette nei termini in cui sono state raccolte, ma la loro estrema specificità si apre a diversi interrogativi. L’omissis più lampante e immediato si lega per esempio al fatto che i calcoli espressi fanno riferimento solo ed esclusivamente ai comandi di testo, mentre la generazione di immagini e di video non viene accennata neppure di sfuggita. Inoltre, il riferimento al “prompt medio” non fornisce un’indicazione dei consumi complessivi né rende conto delle variazioni legate a richieste più complesse, che potrebbero comportare picchi energetici ben superiori alla mediana presentata.
Un aspetto apprezzabile del rapporto è che i dati includono non solo il calcolo computazionale dei chip, ma anche i consumi delle CPU, della memoria, delle macchine inattive e dei sistemi di raffreddamento. Si tratta di un tentativo di offrire una visione complessiva delle infrastrutture coinvolte. Tuttavia, il metodo scelto da Google per la valutazione delle emissioni resta controverso: l’azienda ha utilizzato la cosiddetta “contabilità carbonica basata sul mercato”, la quale si fonda sugli investimenti e sugli acquisti di energia rinnovabile. In questo modo, un data center alimentato in gran parte da elettricità proveniente da combustibili fossili può comunque risultare più “verde” sulla carta, se l’azienda ha investito in progetti rinnovabili altrove. La discrepanza tra il dato di mercato e quello effettivo, cioè “location-based”, rischia così di presentare un impatto più edulcorato rispetto agli impatti reali.
Ammesso che l’ottimizzazione delle singole richieste sia stata esponenzialmente migliorata, resta però il fatto che l’ultimo report di sostenibilità di Google mostra infatti che le emissioni totali sono aumentate dell’11% nel 2024 e del 51% rispetto ai livelli del 2019. La Big Tech, insomma, inquina sempre di più, ed è facile ipotizzare che questa tendenza sia legata a una crescente attività sui frangenti di cloud computing e intelligenza artificiale.
La pubblicazione dei dati da parte di Google arriva in un momento delicato per il settore dell’IA. Figure centrali come Sam Altman, amministratore delegato di OpenAI, hanno iniziato a parlare apertamente del rischio che il mercato sia una bolla finanziaria, destinata a scoppiare se non troverà modelli di business realmente sostenibili. Allo stesso tempo, diverse comunità locali denunciano le conseguenze dirette della costruzione di data center e gigafactory sui loro territori, dal consumo di acqua alle bollette energetiche più care. In questo contesto, le grandi aziende tecnologiche si trovano sotto pressione: non solo devono dimostrare di essere economicamente sostenibili, ma anche di poter ridurre concretamente il loro impatto ambientale.
I dati forniti non servono a nulla … perchè Google (e a ruota Facebook, Instagram, Whatsapp, Telegram ….) non forniscono il consumo totale dei loro datacenter indicando anche la tipologia di energia utilizzata (eolico, fotovoltaico, gas, carbone, idroelettrico)?