mercoledì 13 Agosto 2025

Come le multinazionali sfruttano il sud globale: intervista a Luca Saltalamacchia

In che modo le aziende e le multinazionali europee possono permettersi di agire quasi indisturbate all’estero, scavalcando leggi e volontà delle popolazioni locali? Ne abbiamo discusso con Luca Saltalamacchia, avvocato impegnato nella difesa dei diritti umani e dell’ambiente contro gli abusi delle grandi multinazionali. Ha seguito casi emblematici, come quello contro Eni per i danni ambientali causati in Nigeria, dando voce alle comunità locali colpite dall’inquinamento petrolifero. È tra i promotori dell’iniziativa Giudizio Universale, che chiede allo Stato italiano azioni concrete contro la crisi climatica. Con un approccio che coniuga diritto e giustizia sociale, Saltalamacchia porta avanti una battaglia legale per tutelare popoli vulnerabili e territori minacciati da interessi economici globali 

In che modo gli accordi internazionali di libero scambio e protezione degli investimenti, spesso firmati tra Paesi del nord e del sud globale, si trasformano in strumenti giuridici che rafforzano le disuguaglianze e legittimano pratiche predatorie da parte delle multinazionali? 

È una domanda complessa che richiede anche una contestualizzazione. In giurisprudenza esiste una gerarchia delle fonti: l’ordinamento è pieno di norme, che tuttavia non hanno tutte la stessa forza. Le norme internazionali hanno una forza superiore alle leggi nazionali e al loro interno ce ne sono alcune che fanno parte dello ius cogens, ossia considerate assolutamente inderogabili e di importanza superiore a tutte le altre. È all’interno di questo nucleo duro di norme che si trovano quelle sul rispetto dei diritti fondamentali. Nella pratica di avvocato che opera nel settore, mi sono reso conto che queste previsioni così chiare sulla carta, nella pratica vengono svilite. L’esempio degli accordi di libero scambio va proprio in questa direzione: nella pratica, per la maggior parte degli Stati, le norme più importanti sono quelle commerciali. Quello che dice l’Organizzazione Mondiale del Commercio è considerato immensamente più importante e rilevante di quello che può dire la Corte Internazionale di Giustizia quando si parla di violazioni dei diritti fondamentali. E quando c’è un conflitto tra la protezione di diritti fondamentali e la protezione delle attività commerciali, a livello internazionale si tende a dare più importanza alle seconde. Quello che dico non deriva solo da considerazioni pratiche, ma anche dalla giurisprudenza delle corti arbitrali, che spesso vengono chiamate a intervenire in casi di presunta violazione degli accordi commerciali: l’aspetto della protezione dei diritti umani raramente entra nelle considerazioni di queste camere arbitrali. 

Ci può fare degli esempi di come funziona il meccanismo ISDS (Investor-State Dispute Settlement)? 

In Italia abbiamo avuto il caso della piattaforma Ombrina Mare sull’Adriatico, che è finito davanti al tribunale della Banca Mondiale per le dispute tra investitori e Stati. Lo Stato italiano si è difeso sostenendo che avesse degli obblighi derivanti dai trattati sul clima e sull’approvvigionamento energetico sostenibile: pur essendoci una disputa tra la protezione di un accordo commerciale e gli obblighi internazionali sul cambiamento climatico, il Collegio arbitrale ha condannato l’Italia a risarcire 190 milioni di euro in favore dell’impresa inglese Rockhopper Exploration. Per fortuna, in sede di reclamo la condanna è stata annullata. 

Il caso dell’Italia costituisce un esempio del cosiddetto “nord del mondo contro nord del mondo”; quando questi accordi commerciali riguardano aziende multinazionali del nord del mondo e Paesi del cosiddetto “sud globale”, la situazione è ancora peggiore. Innanzitutto perché c’è una sproporzione nella forza contrattuale: gli Stati del “sud del mondo” non hanno la forza contrattuale di quelli del “nord”. Se poi l’implementazione degli accordi travolgesse i diritti fondamentali e lo Stato del “sud” chiedesse di cambiarli o adeguarli in modo conforme al rispetto dei diritti fondamentali, scatterebbero delle clausole che permetterebbero alle multinazionali di rivolgersi agli organismi che applicano solo le regole commerciali, senza effettuare nessuna graduazione dell’importanza delle norme. Il caso Chevron è emblematico: l’azienda ha devastato l’Amazzonia, distrutto l’habitat, e l’impatto dell’inquinamento ha portato all’estinzione di alcuni gruppi indigeni. Alcuni cittadini ecuadoriani hanno intentato una causa contro la compagnia dinanzi ai tribunali nazionali, vincendola. Come rappresaglia a tale affronto, la Chevron ha avviato una causa contro l’Ecuador davanti alla Corte Permanente di Arbitrato (CPA) dell’Aia, sostenendo che lo Stato, per il semplice fatto di aver con i propri tribunali condannato l’impresa, avesse violato il Trattato Bilaterale di Investimento (BIT) del 1993 tra Ecuador e Stati Uniti. Inutile dire che il Collegio arbitrale ha dato ragione alla Chevron. 

Chi sono i giudici che operano in questo meccanismo? Come vengono selezionati? 

Gli arbitri sono tutti individui privati, che io sappia. Si tratta di specialisti che hanno una brillante carriera e conoscenze adeguate nel settore del diritto commerciale internazionale e dello sviluppo economico; è difficile reperirne qualcuno che abbia una formazione specifica sui diritti umani. Si comportano come se fossero in un vero e proprio tribunale nel senso che disciplinano la procedura, danno i termini per il deposito delle memorie e se c’è la necessità fanno anche l’istruttoria, ascoltano testimoni, nominano periti… alla fine del procedimento emettono un provvedimento definito “Lodo”, che ha la stessa funzione e lo stesso peso di una sentenza. Insomma: questi organismi sono dei veri e propri tribunali, ma privati. Non sono espressione dell’organizzazione giudiziaria di un Paese o di un’entità sovranazionale. 

Prima diceva che questo è uno dei modi attraverso i quali le imprese possono evitare di incorrere in sanzioni e attribuzioni di responsabilità vera e propria. Ci sono altre ragioni dal punto di vista giuridico che permettono alle imprese occidentali, e spesso del nord globale, di operare in maniera abusiva in violazione di diritti umani e norme ambientali senza alcun tipo di responsabilità dal punto di vista legale? 

Questo è un discorso complesso perché bisognerebbe analizzare per ciascun Paese il funzionamento del suo ordinamento giuridico. Tendenzialmente, io credo che sia difficile che vi sia una specifica normativa di favore che consenta l’abuso o la devastazione ambientale, anche perché la gran parte dei Paesi della comunità internazionale ha ratificato i trattati internazionali che proteggono diritti fondamentali, gli habitat, la biodiversità, l’ambiente. Molti Paesi sono inoltre membri di organizzazioni regionali sui diritti umani e sull’ambiente. Il problema sta piuttosto nel come vengono attuati questi accordi e come vengono implementate le regole che esistono, vuoi di natura nazionale vuoi di natura internazionale: più che le norme, insomma, esiste una prassi che favorisce l’abuso, un modus operandi che favorisce le devastazioni ambientali.  

Chi dovrebbe far rispettare le leggi non lo fa. Io, ad esempio, ho svolto parecchie indagini relativamente ai disastri che ENI ha commesso nel delta del fiume Niger. Ho ricevuto mandato da diverse comunità e se ho deciso di lanciare i giudizi in Italia e non in Nigeria è perché in Nigeria non esiste un apparato in grado di imporre a una multinazionale il rispetto di una sentenza. Casi come questo provano che non è un problema di regole, perché le regole ci sono. È un problema di applicazione delle regole. 

Quali sono stati i principali ostacoli a livello processuale nel far valere i diritti delle comunità locali? Cosa rivelano questi casi sull’effettiva accessibilità alla giustizia internazionale per le vittime? 

Lanciare una causa davanti a un tribunale significa innanzitutto dover individuare un soggetto che ha la legittimazione ad agire davanti a quel tribunale. La legittimazione ad agire è una sorta di prerequisito per poter fare una causa, ovvero il giudice si deve interrogare se chi sta davanti a lui sia effettivamente il soggetto legittimato a proporre quella causa. Ti faccio un esempio semplice per capire: se Tizio e Caia sono sposati non è che Sempronio, un terzo, può attivare un giudizio per la separazione giudiziale; solo uno dei due può adire il tribunale. Questa regola, molto semplice nel caso della separazione, è molto complicata quando si tratta di danni alla salute o danni all’ambiente, perché il giudice deve verificare se il soggetto che intenta la causa ha un interesse a farla e ha la legittimazione a rappresentare quell’interesse. Il fatto è che, in genere, chi agisce sono le comunità indigene o le comunità locali, ma il soggetto “comunità locale” o “comunità indigena” è un soggetto sconosciuto nel nostro ordinamento. Noi conosciamo le persone, conosciamo i gruppi in cui le persone si aggregano, le associazioni, i condomini, le società di capitali, le società di persone… la comunità indigena non è un soggetto riconosciuto nel nostro ordinamento. Naturalmente aziende come ENI pongono il problema alla radice, e contestano il potere di rappresentare la comunità a coloro che intentano la causa. Questo significa dover scrivere pagine e pagine di difese per convincere il giudice che il soggetto che agisce è quello che realmente ha il potere di rappresentare la comunità. Questa è una prima grandissima difficoltà. 

E gli altri problemi? 

Sulla stessa linea della definizione del soggetto ci sono tutte le difficoltà relative alla sua identificazione dovuta alla digitalizzazione: un tempo io andavo in tribunale, depositavo il fascicolo sulla scrivania del funzionario del tribunale, e lui lo accoglieva, metteva il timbro e mi dava un numero di identificazione della procedura. Ora si fa tutto telematicamente. Io devo iscrivere a ruolo la causa compilando un software che ha delle voci obbligatorie; uno di questi campi obbligatori è il codice fiscale. 

Quando nel 2017 lanciai la mia prima causa per conto di una comunità indigena nigeriana, questa voce costituiva un problema: le comunità indigene non possono avere un codice fiscale in Italia. Mi è capitato varie volte di scontrarmi con l’Agenzia delle Entrate, che sottolineava che se un soggetto non è in Italia e non ha un rappresentante in Italia, non può avere per legge codice fiscale. Il fatto è che l’Agenzia delle Entrate, dal suo punto di vista ha ragione; ma ho ragione anche io, dal mio. Il fatto che un soggetto non abbia un codice fiscale non può impedirgli di presentare una causa in tribunale. Tutto questo senza parlare della questione dell’asimmetria tra la capacità delle multinazionali di far valere le loro ragioni e l’analoga capacità delle comunità, che sono abituate a pensare in una maniera molto più spontanea. 

Davanti a questo squilibrio strutturale, conosce storie virtuose, proposte concrete o, appunto, forme di resistenza tanto dal basso quanto ai piani più alti che stanno cercando di sovvertire questo meccanismo? 

Secondo me un punto chiave è che la società civile sia quella del nord del mondo sia quella del sud globale sta cambiando. Un tempo le multinazionali la facevano da padrone e quando incontravano ostacoli mandavano le milizie private a reprimere le comunità locali. Oggi è molto più difficile che questo possa accadere: innanzitutto perché le comunità locali sono molto più consapevoli dei loro diritti e del fatto che possono lottare per ottenere che vengano rispettati anche solo in parte. La globalizzazione ha poi fatto sì che anche le comunità più remote possano in qualche modo contare su una rete e avere l’appoggio, per esempio, di associazioni ambientaliste locali collegate con associazioni di respiro internazionale. Questa rete crea una pressione tanto sul posto che nei Paesi di origine delle multinazionali. Le multinazionali devono dare conto alla società civile di quello che fanno e questo porta a delle riforme giudiziarie e politiche non indifferenti: l’ONU ha approvato, oltre dieci anni fa, una serie di princìpi che dovrebbero ispirare le multinazionali in materia di diritti umani. A ruota, l’OCSE ha approvato le linee guida destinate alle imprese multinazionali; poi sono arrivati singoli Stati come Francia e Germania, che hanno anch’essi pensato norme apposite; da ultimo, anche l’UE ha approvato una direttiva in tal senso, sebbene sia stata molto annacquata. Tutte queste forme di regolamentazione, sebbene alcune non siano nemmeno vincolanti, esercitano comunque una pressione sulle multinazionali che sono sempre più costrette a rendere conto alla società civile, la quale sta dimostrando di diventare sempre più consapevole.

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Francesco Torri

Giornalista investigativo con background legale specializzato in diritti ambientali. Scrive di conflitti socio-ambientali legati all’estrattivismo, con un focus su violazioni dei diritti umani e impatti ambientali. Ha lavorato in America Latina su disboscamento, miniere, energie rinnovabili e sovranità indigena.

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