giovedì 7 Agosto 2025

Solo 22 Paesi stanno perseguendo gli impegni climatici stabiliti alla COP28

A quasi due anni dall’intesa raggiunta alla Conferenza delle Parti di Dubai (COP28), in cui oltre 130 Paesi si impegnarono a triplicare la capacità mondiale di energie rinnovabili entro il 2030, gran parte dei governi non ha ancora tradotto quella promessa in azioni concrete. Secondo un rapporto del gruppo di esperti climatici Ember, in particolare, solo 22 Stati – in prevalenza membri dell’Unione Europea – hanno innalzato i propri obiettivi nazionali sulle rinnovabili dal ventottesimo vertice sul clima. Il risultato è un incremento globale delle ambizioni di appena il 2% rispetto a quanto dichiarato allora: sufficiente, forse, a raddoppiare la capacità rispetto ai livelli del 2022 (7,4 terawatt previsti), ma ben lontano dagli 11 terawatt che vennero fissati come traguardo da raggiungere.

Oltre agli Stati Membri dell’UE, solo sette Paesi hanno aggiornato i propri piani, ma tra questi, Messico e Indonesia li hanno addirittura modificati al ribasso. Colossi come Stati Uniti, Cina e Russia – responsabili insieme di quasi metà delle emissioni globali – non hanno compiuto passi avanti. Washington e Mosca non dispongono nemmeno di obiettivi per il 2030, mentre Pechino potrebbe definire la sua strategia nel prossimo piano quinquennale. L’India, pur non modificando i propri target, punta già a 500 gigawatt di rinnovabili entro il 2030, in linea con il traguardo globale. Il Vietnam, invece, è il Paese che ha mostrato la maggiore ambizione dopo la COP28, promettendo +86 gigawatt entro la fine del decennio. Per arrivare a dei sistemi elettrici quasi a zero emissioni, Australia e Brasile hanno annunciato aumenti rispettivamente di 18 e 15 gigawatt, mentre il Regno Unito ha rivisto al rialzo i propri piani (+7 gigawatt), così come la Corea del Sud che prevede una crescita di 9 gigawatt. Senza un’accelerazione immediata, avvertono gli analisti, la dipendenza dal fossile resterà però elevata. L’Italia dal canto suo ha conseguito appena il 22% dell’obiettivo 2030 fissato nel Decreto Aree Idonee, mancando all’appello 62 gigawatt che a questo punto andrebbero aggiunti in sei anni, quindi una decina di gigawatt in media ogni dodici mesi. L’Italia, assente alla votazione finale della COP28, si era distinta per un atteggiamento allineato alle posizioni più conservatrici di Dubai. Pur proponendosi come primo donatore, con 100 milioni di dollari, al fondo “Loss and damage” per i Paesi più vulnerabili, Roma non ha chiarito la provenienza dei fondi, legandoli genericamente al “Piano Mattei”, strategia che punta a fare dell’Italia un hub europeo del gas.

Nel complesso, comunque, già l’esito della COP28, nonostante fu il primo accordo a porsi l’obiettivo della “transizione dai combustibili fossili”, con l’obiettivo dell”azzeramento delle emissioni entro il 2050, non lasciava presagire un cambio di passo deciso. Il tanto celebrato “storico” accordo sulla transizione dai combustibili fossili, il “Global Stocktake”, risultava infatti privo di impegni vincolanti, scadenze chiare o un vero “phase out” (eliminazione graduale), sostituito dal più vago e accomodante verso i grandi produttori di petrolio e gas termine di “transitioning away” (transizione). Le pressioni dell’OPEC, l’Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio, e l’attenzione per tecnologie controverse come la cattura e lo stoccaggio del carbonio, utili più a prolungare la vita delle fonti fossili che a ridurne l’uso, avevano già ridimensionato le aspettative. A distanza di quasi due anni, il quadro tracciato dal rapporto Ember conferma queste preoccupazioni: la maggior parte dei governi non ha alzato l’asticella delle rinnovabili, e alcuni l’hanno persino abbassata, mentre le potenze responsabili di gran parte delle emissioni continuano a rimandare. In un contesto in cui persino i vertici sul clima diventano vetrine per nuovi accordi fossili – come quelli stretti dall’emiratina ADNOC , il cui CEO guidava i negoziati, con 15 Paesi inclusa l’italiana ENI – e in cui interessi economici e geopolitici prevalgono sull’urgenza ecologica, il rischio è che la promessa di triplicare le rinnovabili entro il 2030 resti un impegno di facciata, incapace di tenere viva la speranza di contrastare veramente la crisi ecologica in corso.

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Simone Valeri

Laureato in Scienze Ambientali e in Ecobiologia, attualmente frequenta il Dottorato in Biologia ambientale ed evoluzionistica della Sapienza. Oltre alle attività di ricerca, si dedica al giornalismo ambientale e alla divulgazione scientifica.

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