Spotify si trova a dover affrontare un nuovo “scandalo”. Approfittando della scarsa inclinazione alla privacy offerta dal servizio di streaming musicale, ha preso forma “Panama Playlists”, un portale che, scimmiottando il nome dei Panama Papers, fa trapelare le presunte liste musicali ascoltate dai ricchi e dai potenti. Politici, dirigenti e giornalisti statunitensi hanno visto snudati i loro gusti musicali grazie a un monitoraggio continuo delle informazioni pubbliche e dagli sforzi di raccolta da un anonimo che si muove dietro al progetto sin dall’“estate del 2024”.
Secondo il creatore, ogni playlist resa pubblica, ogni foto profilo e persino il “live listening feed”, ossia l’ultimo brano ascoltato e il conteggio delle riproduzioni, è stato vagliato e associato alle identità reali grazie a indizi quali nomi utente, titoli di playlist e connessioni con altri profili, quali le playlist condivise con partner o colleghi. Sebbene vengano sfruttati esclusivamente i dati condivisi online da Spotify, alcune informazioni, come il numero esatto di volte in cui un brano è stato riprodotto, suggeriscono da parte dell’autore una sorveglianza costante nell’arco di giorni, probabilmente ottenuta tramite le API di Spotify o l’osservazione diretta dei feed. Non è chiaro se il risultato delle Panama Playlists sia frutto di un soggetto che ha agito singolarmente o di un intero team, visto che le informazioni in merito sono state modificate con il progressivo aggiornamento del portale.
Tra i protagonisti messi in luce, spicca JD Vance, Vicepresidente degli Stati Uniti, la cui playlist “Making Dinner” alterna le hit delle boyband One Direction e Backstreet Boys a pezzi indie anni 2000. Non molto diverso è il gusto di Pam Bondi, ex Procuratrice Generale, che ha rivelato un debole per i tormentoni degli anni Duemila – da Nelly ai Black Eyed Peas. Karoline Leavitt, portavoce della Casa Bianca, ha invece condiviso una playlist intitolata “Baby Shower”, la quale spazia dalle grandi voci soul di Beyoncé e Aretha Franklin fino ai più recenti successi virali come A Bar Song (Tipsy) di Shaboozey.
Nel mondo della tecnologia, Sam Altman, CEO di OpenAI, è comparso con la sua raccolta “My Shazam Tracks”, un mix tra i ritmi elettronici di David Guetta, le note pop di OneRepublic. Figurano dunque nomi quali il conduttore Seth Meyers, il CEO di Meta AI, Alexandr Wang, il fondatore di Oculus, Palmer Luckey, e giornalisti di spicco quali Taylor Lorenz e Kara Swisher. Alcune delle figure coinvolte hanno effettivamente confermato l’autenticità delle informazioni tapelate: Luckey ha confessato senza remore che la compilation attribuitagli è la sua, mentre Mike Isaac del New York Times ha tirato un sospiro di sollievo nel far notare che, contrariamente ad altri, non ha playlist “troppo imbarazzanti”. Kara Swisher ha smentito la playlist a lei attribuita, ma ha anche spiegato che, probabilmente, la discrepanza deriva dal fatto che la lista dei brani sia stata ricavata da un dispositivo condiviso con la moglie.
Il caso mette a nudo una falla strutturale, ma sistematicamente ricercata, di Spotify: tutte le playlist e i profili rimangono pubblici salvo disattivazione manuale, un’opzione poco visibile nelle impostazioni e che va applicata manualmente a ogni singolo elenco. Il servizio indulge infatti in dinamiche dai toni social, prediligendo l’esposizione di informazioni che troppo spesso consideriamo intime o private e rendendo laboriosa ogni azione che potrebbe ostacolare questa direzione. L’integrazione con Facebook e Google – che trasferisce anagrafiche da un servizio all’altro – contribuisce inoltre a rendere ancora più facile l’associazione di dati personali a informazioni di ascolto.
Nonostante non siano emersi retroscena rivoluzionari, i leak di Panama Playlists offrono uno spaccato inedito sulla vita privata delle élite globali e ricordano con una certa leggerezza che, nell’era della condivisione digitale, ogni clic e ogni ascolto possono diventare accessibili a terzi, nonché che l’anonimato scricchiola sotto il peso di un’analisi incrociata dei Big Data. Un richiamo alla realtà che, questa volta, ci viene indirettamente offerto da Spotify, azienda che probabilmente è ben felice di aver finalmente distolto l’attenzione dal fatto che il suo CEO, Daniel Ek, sia solito investire nel settore delle armi.
Certo che di tempo da perdere non manca mai.