«Bologna non dimentica». C’è scritto così, da tantissimi anni, sullo striscione che apre il corteo. Parte da Piazza Maggiore, attraversa il centro e arriva fino a Piazza Medaglie d’Oro, sotto un orologio rotto che da 45 anni segna sempre la stessa ora: le 10:25. A quell’ora, il 2 agosto 1980, nella sala d’aspetto della stazione, esplose una bomba che causò 85 morti e oltre 200 feriti. Vittime di ogni età, provenienza e ceto sociale, che si trovavano lì perché ci lavoravano, perché si erano fermate a bere un caffè al bar, a comprare un giornale in edicola oppure – come la maggior parte – perché stavano partendo per le vacanze. È la più grave strage mai avvenuta in Italia in tempo di pace.
Oggi, 45 anni dopo, quello striscione assume un significato ancora più forte. Poche settimane fa, infatti, si è finalmente giunti all’accertamento definitivo delle responsabilità, grazie alla sentenza della Cassazione sul processo a Paolo Bellini, che ha scritto una volta per tutte, nero su bianco, i nomi dei mandanti: il numero uno della P2, Licio Gelli; il capo dell’Ufficio Affari Riservati del Viminale, Federico Umberto d’Amato; il senatore Mario Tedeschi; e il faccendiere Umberto Ortolani. Una strage concepita e finanziata dai vertici della loggia massonica più potente d’Italia, protetta dai servizi segreti ed eseguita da terroristi fascisti. Un legame tra poteri occulti e istituzioni che appare ancora oggi saldo e inconfessabile, se pensiamo che, fino a ieri, le inchieste sulla strage del 2 agosto erano state ostacolate in ogni modo.
«Quarantacinque anni di trame e depistaggi per nascondere la verità», ha dichiarato Paolo Bolognesi, presidente dell’associazione dei familiari delle vittime, salito sul palco per il suo ultimo discorso prima di lasciare la carica dopo 29 anni. Il suo lavoro, quello di Torquato Secci prima di lui, e di tutti i volontari dell’associazione, è stato determinante nella ricerca della verità. Più volte, nel corso degli anni, si è tentato di archiviare le indagini. I familiari delle vittime si sono sempre opposti, rilanciando con nuovi impulsi, come con la digitalizzazione di tutti gli atti dei processi per strage: un passaggio chiave che ha permesso la riapertura del processo a Gilberto Cavallini, poi condannato all’ergastolo.
«Quest’anno sarà un discorso un po’ lungo», aveva annunciato Bolognesi prima di salire sul palco. E così è stato. Nel suo intervento ha ripercorso il lunghissimo cammino per giungere alla verità: dal primo processo del 1987 all’ultima sentenza della Cassazione, arrivata poco più di un mese fa. «Mancano però le responsabilità politiche», ha aggiunto Bolognesi, che non ha risparmiato critiche all’attuale governo, tracciando un vero e proprio filo nero che collega l’esecutivo con il terrorismo neofascista. Ha fatto nomi e cognomi: a cominciare da Mario Tedeschi, senatore del Movimento Sociale Italiano, condannato in via definitiva come mandante della strage; poi Paolo Bellini, infiltrato a suo dire in Avanguardia Nazionale per conto di Giorgio Almirante; e ancora Paolo Signorelli, condannato per associazione sovversiva e banda armata, il cui nipote – omonimo del nonno – è stato fino a poco tempo fa capo dell’ufficio stampa del ministro dell’Agricoltura Lollobrigida.
Dall’MSI provenivano figure chiave dello stragismo neofascista: Stefano Delle Chiaie, fondatore di Avanguardia Nazionale; Franco Freda, responsabile della strage di Piazza Fontana e Nico Azzi, che il 7 aprile 1973 tentò di piazzare una bomba sul treno Torino-Genova-Roma e al cui funerale ha presenziato l’attuale presidente del Senato, Ignazio La Russa. «Sono queste le radici che non gelano, e con queste ci si deve fare i conti», ha detto Bolognesi, rivolgendosi direttamente alla presidente del Consiglio, Giorgia Meloni: «Condannare la strage di Bologna senza condannarne la matrice fascista è come condannare il frutto di una pianta velenosa continuando ad annaffiarne le radici». Bolognesi ha poi criticato il governo per la riforma della giustizia che separa le carriere dei magistrati – «proprio come era nel piano della P2» – e per il decreto sicurezza che, con l’articolo 31, stabilisce che nessun appartenente ai servizi segreti può essere inquisito per depistaggio: «Un tributo pagato a coloro che hanno cercato di abbattere la democrazia».
A rispondere, preventivamente, alle critiche ci aveva pensato la ministra dell’Università, Anna Maria Bernini, che si era dissociata dal discorso di Bolognesi ancora prima di ascoltarlo: «Non sono d’accordo, né a titolo personale né come rappresentante del governo con qualunque riferimento fatto dal presidente Bolognesi all’attualità o all’attuale governo», ha dichiarato appena arrivata, parlando di una «strage oscena, che i magistrati hanno definito di eversione neofascista». Un giro di parole accolto da qualche fischio da parte della platea, radunatasi sotto il palazzo comunale prima di partire in corteo.
Come sempre, a marciare erano migliaia di persone – bolognesi e non – familiari delle vittime e semplici cittadini, che dopo 45 anni chiedono ancora verità e giustizia, non solo per Bologna ma per tutte le stragi rimaste impunite in Italia. Ogni passo del corteo è un atto di memoria attiva, ogni voce un richiamo alla verità, ogni striscione una barriera contro il tentativo di riscrivere o insabbiare la storia. «Sono sicuro che i mandanti e gli esecutori non si sarebbero mai immaginati che noi, dopo tutti questi anni, saremmo stati ancora qui – ha detto il presidente della regione Michele de Pascale – Questa è la forza della democrazia, questa è la forza della libertà».
Ma di quale verità parlate?
Quella dei sinistri filo Atlantici che danno la colpa ai burattini Italiani che non ne avevano alcun interesse, invece che ai Burattinai Sino Americani che di stragi così, ne continuano a fare in tutto il Mondo?