sabato 2 Agosto 2025

Riconoscere la Palestina, senza far nulla per farla esistere: l’ultima ipocrisia europea

In questi giorni dal mondo Occidentale fioccano dichiarazioni forti, in cui i vertici politici si dicono finalmente pronti a riconoscere lo Stato di Palestina. A inaugurarle è stato Macron, in una lettera rivolta al presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas in cui gli comunica che il riconoscimento avverrà a settembre, in occasione dell’apertura del nuovo ciclo dell’ONU. «La pace è possibile», «non c’è alternativa», l’impegno è «di portata storica». Parole che sono giunte rapidamente ai suoi alleati, per essere nella sostanza ripetute dal premier britannico Starmer e dal Canada di Carney: tre Paesi del G7, pronti a riconoscere uno Stato senza volere fare nulla di solido per garantirne l’esistenza. Il riconoscimento è infatti subordinato al disarmo, a riforme orientate, alla cessione della supervisione militare e politica e, per Starmer, alla condotta di Israele. Condizioni concordate con lo stesso Abbas, orientate a completare la trasformazione dell’intera Palestina storica in una colonia israeliana, e a salvare la faccia di una politica ipocrita, incapace di adottare misure concrete per fermare un genocidio.

L’annuncio dell’intenzione di riconoscere la Palestina da parte dei leader Occidentali è arrivato a margine della conferenza franco-saudita per la Palestina, tenutasi a New York. Al termine degli incontri, 15 Paesi hanno firmato una dichiarazione in cui annunciano che prenderanno in considerazione l’idea di riconoscere lo Stato di Palestina; poco dopo, è arrivato l’annuncio di Macron. Nella sua lettera, il presidente francese si rivolge direttamente ad Abbas e annuncia che, alla luce delle sue dichiarazioni di giugno, riconoscerà la Palestina. Di preciso, Macron fa riferimento a una lettera redatta dallo stesso Abbas e inviata – oltre che al presidente francese – all’Arabia Saudita. In essa, il presidente dell’ANP sostiene che i tempi per l’implementazione di una soluzione a due Stati sono maturi, e, in cambio del riconoscimento della Palestina e dell’aiuto nelle trattative per un cessate il fuoco, si impegna a: indire elezioni nel 2026, attuare riforme suggerite dai Paesi occidentali e cedere la supervisione della riorganizzazione politica a un coordinamento internazionale; ordinare il totale smantellamento di Hamas, e impedire al movimento di prendere il potere a Gaza; disarmare lo Stato e cedere la supervisione militare a una forza internazionale. Dopo Macron, anche Carney e Starmer hanno annunciato la propria intenzione di riconoscere uno Stato palestinese. Il secondo, tuttavia, ha detto che riconoscerà la Palestina «a meno che il governo israeliano non compia passi sostanziali per far sì che la terribile situazione a Gaza finisca, accetti un cessate il fuoco, e si impegni a implementare una pace duratura», fermando anche le annessioni in Cisgiordania.

Da Londra, insomma, il riconoscimento della Palestina arriverà solo se Israele non fermerà i massacri; in caso contrario, Starmer ha suggerito di essere pronto a ritirare l’opzione dal piatto. La misura ha dunque tutta l’aria di costituire una sorta di ultimatum a Israele, più che quella di essere un tentativo di risolvere la questione palestinese; pare, insomma, una mossa politica. Francia e Canada, invece, sembrano intenzionate a riconoscere la Palestina a prescindere dalla condotta dello Stato ebraico; le condizioni imposte, tuttavia, non paiono rendere la loro «misura storica» realmente diversa da quella britannica. La Palestina che disegnano, infatti, è uno Stato indipendente solo nel nome: smilitarizzata, con forze internazionali sul territorio, e costretta ad applicare riforme imposte da terzi. Tra di esse, lo stesso Abbas ricorda quella che taglia i sussidi statali per i parenti dei martiri e delle persone in prigione, voluta da USA e Israele che la vedevano come un modo per «fomentare il terrorismo»; si potrebbe ricordare anche quella di gennaio, con la quale bandì temporaneamente l’emittente qatariota Al Jazeera in Cisgiordania, adducendo le stesse motivazioni che il governo israeliano fornì quando ordinò la chiusura degli uffici della medesima emittente.

Il preannunciato riconoscimento della Palestina appare come l’ultimo degli atti ipocriti dei leader occidentali, mossi non da un improvviso slancio umanitario, ma da ragioni puramente politiche: esso, causalmente, arriva in un momento in cui i crimini israeliani sono talmente evidenti (e la pressione dal basso talmente forte) da non permettere più che ciò che accade a Gaza venga ignorato. Il tempismo e le modalità sembrano incastrarsi con precisione chirurgica con l’esigenza di apparire risoluti davanti a una opinione pubblica che chiede sempre più intensamente risposte, senza fornirgliele realmente. Le misure che potrebbero prendere gli Stati per esercitare una reale pressione su Tel Aviv, infatti, sono diverse, e il riconoscimento di uno Stato palestinese è solo la prima e più scontata di queste: i Paesi potrebbero emanare sanzioni contro i coloni, i ministri e le entità che collaborano con il genocidio; potrebbero interrompere in via definitiva i rapporti commerciali con le colonie, così come il traffico di armi; potrebbero unirsi alla causa di genocidio intentata dal Sudafrica e presentare memorie contro Israele; potrebbero interrompere gli accordi di scambio, come, nel caso dell’UE, l’Accordo di Associazione UE-Israele.

Questo non significa che riconoscere la Palestina non comporti nulla. La legittimazione politica di una entità indipendente è necessaria per affermare il diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese; a mettere in dubbio l’efficacia – e i presunti intenti umanitari – degli annunci dei leader del G7 sono le caratteristiche dello Stato palestinese che questi suggeriscono tra le righe, e il fatto che le trionfanti parole usate per parlare del futuro riconoscimento della Palestina non sono state accompagnate da altrettanto risoluti annunci di contromisure, se Israele non si adegua e ferma il genocidio; perché sebbene riconoscere la Palestina sia importante, farlo senza prendere misure concrete per garantire la sua esistenza rischia di non servire a niente.

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Dario Lucisano

Laureato con lode in Scienze Filosofiche presso l’Università di Milano, collabora come redattore per L’Indipendente dal 2024.

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