sabato 2 Agosto 2025

Dino Budroni: ucciso da un poliziotto che non farà un giorno di carcere

La vicenda dimenticata di Dino Budroni ha compiuto 14 anni esatti ed è finita nel nulla: un delitto con un colpevole, ma senza castigo. Un omicidio senza pena. Bernardino, per tutti Dino, se lo portarono via due colpi di Beretta – uno mortale – sulle ultime curve di una notte romana di fine luglio del 2011. I processi hanno accertato che a ucciderlo fu un poliziotto di nome Michele Paone. Ma il paradosso è che l’agente non è mai passato dal carcere, non è mai stato sospeso dal servizio e nemmeno ha dovuto versare un euro di risarcimento ai parenti di Dino. Come è possibile? Per raccontarlo occorre riavvolgere una lunga sequenza di processi farsa, incongruenze e silenzi mediatici che hanno portato alla paradossale assoluzione perché l’agente avrebbe sparato per «tensione e stress psicologico accumulato». E questo nonostante la gestione dello stress sia uno di corsi base nelle scuole di polizia. E nonostante sia stato appurato che Dino Budroni venne ucciso a sangue freddo, mentre si trovava con le mani in alto. 

Condannato senza pena: chi sbaglia (in divisa) non paga

Non ha pagato, soprattutto, l’unico imputato: l’agente scelto Michele Paone della Polizia di Stato, che pure è stato condannato per aver premuto il grilletto della sua Beretta di ordinanza, uccidendo il 40enne seduto nella propria macchina. La quale, una Ford Focus, era ferma sul Grande Raccordo Anulare in direzione nord, a due passi dall’uscita Nomentana. Era praticamente parcheggiata, alla fine di un inseguimento iniziato una ventina di chilometri prima, all’imbocco del Raccordo da Cinecittà. Il giudice di primo grado, quello che il 15 luglio 2014 ha assolto l’imputato dal reato di omicidio colposo perché «il fatto non costituisce reato» e riconoscendo un uso legittimo delle armi, ha argomentato la sua decisione dicendo, in buona sostanza, che Budroni – già colpito dal proiettile – ha fermato la macchina, spento il motore, inserito la prima marcia e tirato il freno a mano, colpito a morte da un colpo sparato dall’alto verso il basso e da sinistra verso destra: una ricostruzione che definire fantasiosa è un complimento.

Omissioni, incongruenze e indizi trascurati

Le indagini dei Carabinieri sul luogo dell’omicidio di Dino Budroni

Ma i gradi di giudizio di questa storiaccia hanno scandito anche omissioni, incongruenze e mancanze nel percorso giudiziario. Meglio ricordare che tutto era iniziato sotto casa della donna che Budroni frequentava da cinque mesi, in via Quintilio Varo, a due passi dal Parco degli Acquedotti. Una diatriba a suon di porte prese a calci e urla, tanto che i giornali, nei giorni successivi, avevano titolato sulla «notte brava dello stalker». La donna, che aveva convissuto con Dino a Fonte Nuova, lo ha denunciato in commissariato dopo le sei del mattino, quando lui era già un cadavere in obitorio. Il processo per quella denuncia è stato celebrato solo dopo che era già stato sepolto, nel cimitero dove ignoti, per molto tempo, si sono particolarmente divertiti a violare e profanare la sua tomba. 

Il silenzio mediatico e una tempesta perfetta

Se c’è un caso in cui l’informazione ha selezionato e pilotato cosa raccontare, è stato proprio quello dell’omicidio di Dino Budroni. Su nessuna testata, infatti, si è mai letto di tutti gli indizi, i particolari e le tracce che nessuno ha scavato né approfondito. Non lo ha fatto la Procura, nei suoi diversi assetti e titolarità. Non lo hanno fatto gli avvocati della famiglia, che pure si sono avvicendati, e che sembrano aver sempre accettato senza batter ciglio il fatto che nel dossier ci fosse poco o nulla, se non l’incriminazione di Paone, colui che ha premuto il grilletto.

Ora che la vicenda ha ricevuto una pronuncia definitiva dalla Cassazione, riavvolgendo il nastro di tre lustri di indagini non fatte e zone d’ombra mai illuminate, pare evidente che qualcuno si sia accontentato di un colpevole designato. Come chi sceglie di giocare in difesa e buttar via il pallone, che poi alla fine non è stato nemmeno colpevole, perché la prescrizione decennale per il reato di omicidio colposo, pur con aggravanti comuni (articolo 61 del Codice penale, capo terzo), gli ha tolto ogni rischio di varcare la soglia del carcere.

La giustizia non è riuscita a giudicare Paone prima che la mannaia dei termini calasse. Tutti questi elementi hanno composto una sorta di tempesta perfetta che ha inghiottito il caso Budroni, togliendo pena e conseguenze ai responsabili, e diluendo tutto in un interminabile percorso giudiziario.

Giudici diversi, sentenze diverse

Nei diversi gradi di giudizio, i giudici non sono sembrati d’accordo sulla colpevolezza dell’agente Michele Paone. Assolto in primo grado, condannato in appello a otto mesi, dopo che è stata messa in dubbio la volontarietà del suo gesto e la consapevolezza delle conseguenze, verso un’auto ferma dopo un inseguimento che i verbali descrivono come «condotto a folle velocità da Dino Budroni». Come a voler dipingere una situazione in cui la fine tragica era inevitabile.

Paone ha sempre dichiarato di aver mirato alle gomme della Focus in fuga. Il giudice di primo grado ha scritto che l’auto era in movimento al momento degli spari, nonostante uno dei carabinieri intervenuti (due volanti e una pattuglia dell’Arma, la Beta Como) abbia dichiarato in aula di aver sentito gli spari quando tutte le auto erano ferme.

La Corte d’Appello, anche per questo, ha ribaltato la sentenza di primo grado, ma la Cassazione ha annullato la condanna per vizio di motivazione, chiedendo un nuovo giudizio.

Sparare per colpa dello stress: le motivazioni dell’Appello bis

I fori dei due colpi di pistola esplosi dall’agente Michele Paone sulla Focus di Dino

La Suprema Corte ha rinviato il processo per un nuovo appello, che si è concluso lo scorso novembre, definendo colpevole l’agente Paone per aver sparato a Budroni da fermo – praticamente un’esecuzione – e in condizioni psicologiche “traballanti”.

Nella sentenza si legge: «Deve necessariamente concludersi che, al momento degli spari, la condotta di fuga di Budroni fosse ormai giunta al termine e che, pertanto, non vi fosse alcuna necessità di fare uso dell’arma per ”respingere la violenza” o ”vincere la resistenza” impeditive all’adempimento del dovere dei pubblici ufficiali». Il punto chiave: Paone ha sparato da fermo, quando Budroni aveva le mani alzate e la macchina era parcheggiata.

La lettura psicologica da parte dei giudici sorprende: «Paone non poteva non essersi reso conto di ciò già durante lo svolgimento dell’azione, per cui non è implausibile ritenere che il suo intervento sia stato essenzialmente frutto di tensione e stress psicologico accumulato, che lo hanno indotto a compiere un gesto non necessario e avventato». Ma proprio la gestione dello stress è il primo requisito insegnato nelle scuole di polizia.

Speronamenti senza tracce

La Focus di Budroni era inseguita da chilometri, dall’Anagnina, da due volanti e da una gazzella dei Carabinieri che Budroni avrebbe anche cercato di speronare. Ma sull’auto dell’Arma non ci sono tracce di urti. Gli agenti, durante l’operazione, alla radio dissero: «Lo abbiamo preso». Ma nessuno comunicò l’inseguimento alle centrali operative. L’azione avvenne, in pratica, all’insaputa degli altri colleghi.

Testimoni dimenticati

Ci sono testimoni oculari mai ascoltati. Uno di loro, Franco Casalino, titolare di un banco al mercato di Val Melaina, ha dichiarato di aver visto il corpo senza vita sul sedile passeggero alle 5 del mattino. Ma gli orari ufficiali non coincidono. L’agente Marco Stabile ha detto che alle 4:45 erano tornati in via Quintilio Varo per un controllo. L’alba civile dell’1 agosto 2011, però, è stata alle 4:30. O era già chiaro, o l’inseguimento era avvenuto prima.

Uno scontrino che cambia(va) tutto

Nelle tasche di Budroni è stato trovato uno scontrino per una birra, emesso da un bar sulla Nomentana, vicino a Fonte Nuova, dove viveva. Ma l’inseguimento sarebbe partito dal Tuscolano. La dinamica temporale non torna. Se era già a casa, perché tornare indietro? Inoltre, Budroni ricevette una telefonata alle 4 dal cognato a cui disse: «Sto tornando a casa».

C’erano altre persone con Dino quella notte?

Il sedile passeggero era reclinato, ma Budroni era solo. C’erano strane macchie mai repertate. Possibile che qualcuno fosse salito sull’auto e poi scappato? Nessuno ha indagato. È rimasta anche una pistola scacciacani, replica della Beretta 92, a bordo della Focus. Non era sua, non fu sottoposta a perizia e non è stata restituita alla famiglia.

Un fascicolo rimasto vuoto per 14 anni

Il fascicolo con cui Michele Paone è arrivato al primo grado di giudizio era sostanzialmente vuoto. Non si è riempito granché nemmeno dopo. La Cassazione, pronunciandosi nel novembre scorso, ha confermato la colpevolezza ma ha annullato le provvisionali a favore dei familiari. Paone non è mai stato sospeso, ha continuato a indossare la divisa e non dovrà nemmeno risarcire chi ha perso un figlio, un fratello, un uomo. Claudia, la sorella di Dino, ha speso anni a rincorrere la verità. Ma il caso di Dino Budroni è finito in un limbo mediatico, al contrario di altri nomi diventati simboli come Federico Aldrovandi, Stefano Cucchi e tanti altri. Evidentemente, non solo la legge, ma nemmeno i morti ammazzati sono sempre uguali per tutti.

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Salvatore Maria Righi

Giornalista professionista dal 1992, è stato per 15 anni caposervizio e inviato della redazione romana del quotidiano L’Unità, occupandosi di inchieste di cronaca e criminalità. Per L'Indipendente cura la rubrica "pagine oscure d'Italia"

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2 Commenti

  1. L’abuso di potere delle forze armate in generale è una cosa ormai nota. Usare questi esempi per sensibilizzare è un errore. Lo stesso per il caso Aldovrandi, Uva, ecc. Parliamo di persone inequivocabilmente in errore, dove errore chiama errore, coinvolgendo chi non vorrebbe mai uccidere una persona, ma la situazione volge al peggio. Cerchiamo d’essere onesti; chi ha innescato le reazioni umane che hanno portato alla morte, guardando tutte le dinamiche dei casi citati, situazioni al limite. Il lavoro del poliziotto o carabiniere è un lavoro ingrato dove per un accesso si passa dalla parte del torto, ma il vero torto è avere una condotta inutilmente provocatoria dettata da motivazioni futili e inutili. Non siamo di fronte a Ghandi o altri esempi ancor più noti ed eccellenti, dell’obiettivo che stavano perseguendo, che non era certo quello di mostrare un disagio personale da curare.
    Sicuramente il manganello non ha mai curato nessuno, nemmeno la società in generale; quindi, chi vuole farlo si mette dalla parte sbagliata sia che operi come forza dell’ordine o no. Ma di fronte ad un “invasato” cosa dobbiamo fare, non possiamo lasciarlo fare si deve intervenire e bloccare, ponendosi a volte a rischio.
    Per denunciare l’abuso di potere delle forze militari Ghandi oppose la sua non violenza, questa è la giusta strada. Chi però ha il coraggio di farsi picchiare senza reagire, tutto per una giusta causa? Scrivete di questo, semmai ci sono esempi odierni che lo rappresentano.

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