La notizia era nell’aria da giorni: Iveco Group della famiglia Agnelli diventa indiana. Lo storico marchio dei veicoli industriali e speciali, nato dallo scorporo di CNH Industrial è stato ceduto dal colosso Exor agli indiani di Tata Motors e rappresenta l’ultimo capitolo di una lunga storia di smantellamento industriale e di svendita del patrimonio nazionale.
L’operazione ha un valore complessivo stimato di 5,5 miliardi di euro. Di questi, circa 3,8 miliardi sono destinati all’acquisto della divisione civile di Iveco, mentre 1,7 miliardi vanno a Leonardo per l’acquisizione del comparto Difesa (IDV e Astra), separato come condizione preliminare all’acquisizione. In termini tecnici, si tratta di una dismissione per comparti: prima si scinde il segmento militare, poi si vende tutto il resto. L’acquisizione da parte degli indiani è prevista entro la metà del prossimo anno: Iveco manterrà la sede principale in Italia, a Torino, ma lascerà la Borsa di Milano.
La divisione dei veicoli commerciali – autobus, camion, furgoni – va dunque a Tata. L’unione tra le due aziende produrrà un gruppo con ricavi annui da 22 miliardi di euro e vendite superiori alle 540.000 unità all’anno, ben posizionato tra Europa, India, Americhe, Asia e Africa. La divisione strategica per la Difesa terrestre (veicoli blindati, tattici, da combattimento), invece, viene ceduta all’ex Finmeccanica, oggi Leonardo S.p.A., in una sorta di “rientro controllato” nell’alveo della difesa nazionale, sebbene anche Leonardo abbia assett azionari molto frammentati.
A livello finanziario, il vero vincitore della partita è Exor, la holding della famiglia Agnelli-Elkann, che non solo monetizza la vendita, ma incassa un dividendo straordinario stimato tra 5,5 e 6 euro per azione.
È una di quelle notizie che si presentano con toni trionfalistici nei comunicati stampa (la nota congiunta di Iveco e Tata parla di «sinergie», «visione globale», «occupazione garantita»), ma che in controluce raccontano un altro tipo di storia: quella di una nazione che non ha più una strategia industriale, né la volontà di difendere i suoi asset strategici. Le rassicurazioni non mancano: nessuna chiusura di stabilimenti, nessun esubero, quartier generale a Torino “preservato”. La narrazione è sempre la stessa: «nulla cambierà», «gli stabilimenti resteranno in Italia», «nessun licenziamento». Parole fotocopia che abbiamo già sentito con Pirelli, Magneti Marelli, Parmalat, Indesit, Italcementi e decine di altri marchi. Poi arriva la realtà: know-how che prende il volo, decisioni spostate all’estero, delocalizzazioni graduali ma inesorabili dove il costo del lavoro è più basso.
Più del valore economico, pesa il significato simbolico. Iveco non è solo un marchio, è un pezzo di storia industriale italiana, un pilastro di Torino, una colonna portante della mobilità pesante europea. Eppure, tutto è avvenuto senza confronto con i sindacati, che ora lanciano l’allarme per i quasi 13.000 addetti (di cui seimila lavoratori diretti e i duemila dell’indotto nel torinese).
La notizia della vendita di Iveco incontra il favore del governo che parla di «un’importante operazione industriale che apre nuove prospettive di crescita per il gruppo Iveco» e sottolinea che l’India è partner strategico dell’Italia. Il governo italiano precisa che si limita a osservare e a «vigilare». Una vigilanza che finora non ha impedito a nessuna delle grandi eccellenze italiane di passare oltre confine. Sempre più aziende italiane, infatti, vengono comprate, svuotate, delocalizzate. A volte il marchio resiste, altre volte no. Si parla di «occupazione garantita», ma il copione è noto: oggi si firma il patto, domani si tagliano i rami secchi, dopodomani si delocalizza in nome della competitività. Il governo si dice pronto a «collaborare», come in tutte le altre cessioni, salvo poi farsi trovare impreparato di fronte ai licenziamenti.
La svendita delle imprese italiane
Come denuncia il rapporto Outlet Italia dell’Eurispes, lo scenario è da brividi: stiamo trasformando la nostra industria in museo. Abbiamo oltre 600 musei e archivi d’impresa – da Ferrari a Ducati, da Perugina ad Alessi – ma pochi impianti che producano ancora valore in Italia. Il problema? La miopia delle élite industriali italiane: abbiamo smesso di investire nel lungo periodo, abdicato alla visione strategica, sostituito il progetto industriale con il dividendo immediato. Le difficoltà esistono soprattutto per le piccole e medie imprese, a cominciare dalla pressione fiscale e dalla burocrazia.
I numeri parlano chiaro: gli stranieri comprano il doppio delle aziende italiane di quante ne compriamo noi, e spendono meno della metà. Siamo un outlet del Made in Italy, una terra di conquista, con rare eccezioni, come il caso Carrefour che cede la sua rete italiana di 1.188 punti vendita all’azienda italiana NewPrinces Group, il riassetto di TIM, con Poste Italiane che ha acquisito il 15 per cento delle azioni da Vivendi o la Nestlé che sta pensando di rivendere Sanpellegrino e l’Acqua Panna (che così potrebbero tornare italiane).
Dal 2008 al 2012, 437 aziende italiane sono passate nelle mani di acquirenti esteri. Tra il 2014 e il 2023, ci sono state 2.948 acquisizioni estere di aziende italiane (contro le 1.673 acquisizioni italiane all’estero) per un valore di 203 miliardi di euro. Marchi storici come nel campo del lusso (Gucci, Valentino, Bottega Veneta, Brioni, Loro Piana, Bulgari, Pomellato, Buccellati, Versace), dell’alimentare (Parmalat, Galbani, Locatelli, Invernizzi, Eridania, Bertolli, Motta, Sperlari, Saila, Peroni, Star), dell’industria (Pirelli, Magneti Marelli, Indesit, Italcementi, Fiat Ferroviaria, AnsaldoBreda), dei trasporti e della difesa (Piaggio Aerospace, Ducati, Lamborghini), sono ormai solo brand italiani in mano a holding francesi, americane, tedesche, cinesi o giapponesi.
Il consumatore medio non se ne accorge: compra un prodotto con nome italiano, ignaro che dietro quel nome ci sia una multinazionale straniera che reinveste gli utili altrove. A farne le spese sono l’occupazione, la filiera locale, l’autonomia strategica e, soprattutto, la sovranità industriale, termine ormai tabù in un Paese che ha smesso da tempo di difendere se stesso, se non a parole. La vendita di Iveco non è un “nuovo inizio”, è il proseguimento di una lunga eutanasia industriale. Non stiamo costruendo nulla: stiamo smontando, smantellando, vendendo e archiviando la nostra storia industriale.
Ricordo come ridevamo una trentina di anni fa al transitare di qualche rarissima Tata pickup (usata) di proprietà di qualche agricolo…