venerdì 18 Luglio 2025

Potrebbero essere state scoperte le rocce più antiche di sempre sulla Terra

Nel nord del Québec, sulla costa orientale della baia di Hudson, un remoto affioramento roccioso potrebbe custodire i frammenti più antichi mai identificati della crosta terrestre: è quanto emerge da uno studio condotto da un team internazionale guidato dal geologo canadese Jonathan O’Neil dell’Università di Ottawa, sottoposto a revisione paritaria e pubblicato sulla rivista scientifica Science. Utilizzando tecniche radiometriche alternative e di retrodatazione, gli scienziati hanno scoperto che alcune intrusioni – dette “metagabbriche” – nella cintura di rocce verdi di Nuvvuagittuq risalirebbero a 4,16 miliardi di anni fa. «Le rocce sono libri per geologi, e al momento ci manca il libro sull’Adeano», ossia l’unità geocronologica che rappresenta la prima suddivisione del tempo geologico nella storia del nostro pianeta. Ha commentato O’Neil, aggiungendo che la scoperta è avvenuta in un sito da tempo oggetto di controversie e che, se confermata, aprirebbe una finestra unica sull’inizio della storia geologica del nostro pianeta.

Il tentativo di ricostruire la storia geologica della Terra nei suoi primi istanti, spiegano gli esperti, è da sempre limitato dall’estrema rarità di rocce superstiti risalenti all’Adeano. Le uniche formazioni finora riconosciute come testimoni di quell’epoca, infatti, si fermavano ai 4,03 miliardi di anni del Complesso di Gneiss di Acasta. Nel sito di Nuvvuagittuq, emerso scientificamente solo nei primi anni 2000 ma mappato già negli anni ’60, le datazioni precedenti avevano prodotto risultati discordanti, in quanto alcuni geologi parlavano di 3,75 miliardi di anni, mentre altri spingevano fino a 4,3. Tuttavia, i metodi tradizionali basati sui cristalli di zircone – minerale usato comunemente per datare rocce antiche grazie al decadimento radioattivo dell’uranio – non sono applicabili a queste formazioni, povere di silicio e quindi prive di zirconi utili. Per superare questo limite, quindi, O’Neil e colleghi hanno adottato una tecnica alternativa, basata sul decadimento di isotopi del samario in neodimio, metodo già collaudato per la datazione dei meteoriti.

In particolare, gli autori hanno spiegato alle agenzie di stampa che la novità dello studio non sta solo nell’approccio metodologico, ma nella coerenza dei dati ottenuti: due isotopi diversi del samario forniscono due “orologi” distinti che convergono sulla stessa età, 4,16 miliardi di anni. Il dato, aggiungono, è stato ottenuto su intrusioni metagabbriche – un tipo di roccia metamorfica campionata nella cintura – le quali secondo gli autori rappresentano un residuo primitivo della crosta terrestre adeana. «È un dibattito su cosa stiamo misurando esattamente nel tempo, perché non possiamo usare lo zircone», spiega O’Neil, aggiungendo che, tuttavia, il loro lavoro ha convinto anche alcuni dei critici storici: Bernard Bourdon del Centre National de la Recherche Scientifique francese, infatti, ha definito lo studio come «notevolmente migliorato» rispetto al controverso lavoro del 2008. Altri, però, mantengono una certa cautela. Hugo Olierook della Curtin University ha sottolineato che l’uso di rocce intere, invece di minerali singoli, rende l’età più vulnerabile a eventuali alterazioni, mentre Jesse Reimink della Penn State University ha aggiunto che, con rocce così antiche, nulla può dirsi definitivo, anche se la scoperta è certamente degna di nota: «I tempi sono così lunghi e la storia di queste rocce e minerali è così travagliata che ricavare da essi anche solo informazioni primarie è davvero sorprendente». E sebbene le rocce datate non sembrino aver ospitato vita, concludono i coautori, formazioni sedimentarie adiacenti potrebbero conservare microfossili e strutture batteriche, alimentando l’ipotesi che la vita sia comparsa molto prima del previsto: «Le prove di una vita primitiva in queste rocce sedimentarie indicano che l’origine della vita può avvenire molto rapidamente», osserva Dominic Papineau dell’Accademia Cinese delle Scienze. La scoperta, insomma, non chiude il dibattito, ma apre nuovi potenziali scenari sul passato remoto della Terra e forse, chissà, anche sulla vita nell’universo che conosciamo.

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Roberto Demaio

Laureato alla facoltà di Matematica pura ed applicata dell’Università di Modena e Reggio Emilia. Autore del libro-inchiesta Covid. Diamo i numeri?. Per L’Indipendente si occupa principalmente di scienza, ambiente e tecnologia.

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