giovedì 17 Luglio 2025

La Francia introduce misure per contrastare il fast fashion

Il fenomeno del fast fashion (letteralmente, la “moda veloce”) è in gran parte responsabile dell’aumento del consumo di capi di abbigliamento usa e getta. Una crescita costante, diffusa in tutto il mondo, che desta sospetti e preoccupazioni, ma per la quale nessuno sembra prendere misure concrete per contrastarla. A parte la Francia, che recentemente ha messo in atto iniziative più severe per contrastare questo fenomeno, dopo che già lo scorso anno aveva introdotto misure per incentivare la riparazione e disincentivare gli acquisti compulsivi. Tra il 2010 e il 2023, infatti, i capi immessi sul mercato in territorio francese sono aumentati da 2,3 a 3,2 miliardi (+39%), pari a oltre 48 articoli a testa in più all’anno (di cui 35 vengono buttati, secondo l’agenzia ambientale Ademe).

Approvata il 10 giugno con una quasi totalità di voti (337 favorevoli e solo 1 contrario), la legge contro il fast fashion prende di mira i produttori di moda veloce, ovvero coloro che mettono in atto pratiche industriali e commerciali caratterizzate dalla riduzione del ciclo di vita dei capi di abbigliamento (obsolescenza programmata e scarsa qualità), da una produzione di massa (tantissimi modelli in colori e taglie differenti) e dallo scarso o nullo incentivo alla riparazione dei prodotti. Praticamente il 90% delle aziende di moda rientra in questa definizione, ma in questo caso l’attenzione dei legislatori francesi si è concentrata soprattutto sui giganti dell’ultra fast fashion, Shein e Temu, lasciando volutamente fuori aziende europee come Zara, H&M e Kiabi – una mossa che ha indignato diversi gruppi ambientalisti, tra cui Friends of the Earth.

Le aziende che rientreranno nei parametri definiti dalla legge – che saranno ulteriormente dettagliati in un apposito decreto – saranno obbligate a sensibilizzare i clienti sull’impatto ambientale dei prodotti venduti, promuovendo al contempo pratiche di riparazione e riciclo. A questi obblighi si aggiunge una tassa per i prodotti ritenuti “meno sostenibili”: si parte da un massimo di 5 euro ad articolo, che potrà salire a 10 euro entro il 2030, ma non potrà mai superare il 50% del prezzo di vendita. Considerando che moltissimi articoli vengono venduti tra i 2 e i 5 euro, l’efficacia di questa tassa resta dubbia: dissuasiva, sì, ma con un impatto economico potenzialmente minimo per le aziende coinvolte.

Un’altra novità riguarda l’introduzione di un eco-punteggio, assegnato in base a parametri ambientali come il consumo di acqua, le emissioni di CO₂, gli effetti sulla biodiversità, ecc. Anche se non ancora obbligatorio, è già disponibile uno strumento chiamato Ecobalyse, in grado di calcolare l’impatto ambientale in forma numerica, da 1 a infinito. Il sistema, entrato in vigore questo mese, è per ora volontario, ma i brand sono caldamente invitati a utilizzarlo: in caso contrario, potranno essere valutati da enti esterni.

Il punto più controverso della legge riguarda però la comunicazione. Rivenditori come Shein e Temu, privi di una presenza fisica capillare, hanno costruito il loro successo principalmente grazie alla pubblicità sui media e, soprattutto, alla promozione da parte di influencer sui social media. Ma il fast fashion, al pari di alcol e sigarette, nuoce all’ambiente (e quindi anche alla salute), e per questo motivo non potrà più essere pubblicizzato. Per ogni infrazione è prevista una multa fino a 100.000 euro.

Tempi duri, quindi, per quegli influencer che si sono arricchiti promuovendo la moda ultra veloce attraverso contenuti su Instagram, TikTok e altre piattaforme. Mostrare quotidianamente acquisti, normalizzare il cambio d’abito giornaliero, spingere a comprare compulsivamente non sono semplici contenuti, ma atti che hanno conseguenze ambientali e sociali significative. Anche gli influencer finiscono dunque nel mirino della legge, perché non sono solo “persone”, ma veri e propri generatori di tendenze. Promuovere abiti venduti a 5 euro, prodotti in condizioni di lavoro discutibili e con materiali scadenti, è una forma di manipolazione della domanda che alimenta la cultura dell’usa e getta. La visibilità non è neutra: è responsabilità. Chi crea contenuti è responsabile dei messaggi che trasmette al proprio pubblico, grande o piccolo che sia.

Per questo, la legge vieta pubblicità e post sponsorizzati per marchi di ultra fast fashion, campagne di influencer marketing o link di affiliazione verso i marchi vietati, e qualsiasi sponsorizzazione rivolta a minori o bambini. Anche contenuti non sponsorizzati potranno essere oscurati o penalizzati se ritenuti idonei ad aumentare la visibilità dei marchi incriminati. Limitando pubblicità e contenuti social, la Francia spera di rallentare il sovraconsumo.

La legge rappresenta un passo avanti nella lotta contro l’impatto ambientale ed economico del fast fashion, ed è un chiaro monito per aziende e consumatori. Tuttavia, il fatto che la normativa si concentri quasi esclusivamente su due marchi, escludendo numerose aziende europee con responsabilità simili, è un’occasione persa. Il protezionismo sembra aver prevalso sull’ambizione di guidare l’intero settore verso pratiche più sostenibili. Chissà che questa legge non serva comunque da stimolo per iniziative più ampie, coerenti e condivise in tutta Europa, e non solo.

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Marina Savarese

Stilista, docente di moda e comunicazione, scrittrice e co-fondatrice del portale Sfashion-net, dedicato alla moda slow. Per L’Indipendente si occupa di consumo e moda critica.

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