Nei giorni scorsi, Facebook ha perso una battaglia in materia di violazione del diritto d’autore. La piattaforma social si è dovuta piegare alla decisione del tribunale di Torino, il quale l’ha riconosciuta colpevole di aver ospitato illegittimamente numerose fotografie scattate dal fotoreporter Gianni Minischetti alla celebre giornalista Oriana Fallaci. I contenuti, regolarmente segnalati, non sono stati rimossi, mentre la piattaforma ha tratto profitto dalla condivisione virale delle immagini caricate abusivamente sui propri server. Per le sue responsabilità, Meta – azienda madre di Facebook – è stata condannata al pagamento di una multa pari a 151.000 euro: una cifra esigua per una Big Tech, tuttavia il peso della sentenza va ben oltre l’aspetto economico. La decisione ricorda infatti che autori e creativi hanno la possibilità e il diritto di resistere agli abusi perpetrati dalle grandi piattaforme digitali.
Che sia a fini celebrativi, ironici o virali, le foto di Minischetti con soggetto Oriana Fallaci sono ormai utilizzate da anni a vario titolo su Facebook, senza preventiva autorizzazione e, spesso, senza neppure che venga opportunamente menzionata l’attribuzione degli scatti. I giudici Alberto La Manna, Marisa Gallo e Rachele Olivero hanno stabilito che un compendio di 54 foto dell’autore è stato condiviso almeno 1.045 volte in un periodo di riferimento che parte dal 2022; tra queste figura anche il celebre ritratto in cui la giornalista posa davanti al ponte di Brooklyn, con le Torri Gemelle che spiccano platealmente alle sue spalle. Le stime del tribunale potrebbero però essere riduttive, visto che il reporter sostiene che il fenomeno abbia avuto una portata ben maggiore di quella ufficialmente riconosciuta dal tribunale.
«Hanno preso come valida la data della citazione», spiega Minischetti a L’Indipendente. «Io è dal 2013 che gli segnalo il problema con lettere dagli avvocati e diffide. C’è addirittura una mail in risposta da Facebook – allora era Facebook, non esisteva Meta – dove dicono “grazie per la segnalazione delle fotografie, siamo prontamente a rimuoverle e disabilitare l’uso”. Dopodiché non si sono più fatti sentire». Per muovere battaglia contro il colosso statunitense, l’autore si è affidato agli avvocati Giovanni Manganaro e Nicola Gianaria dello studio BGM di Torino, all’avvocato torinese Fabrizio Lala e all’avvocato Enrico Chiarello del Foro di Milano. Secondo Manganaro, gli scatti «hanno registrato un’impennata di caricamenti, condivisioni e interazioni dal 2016 in avanti», probabilmente in relazione al moto di paura suscitato dagli attentati parigini rivendicati dall’Isis, nonché dalle opinioni espresse da Oriana Fallaci sul rapporto tra Islam e i moti terroristi.
Gli scatti in questione, parte del set pubblicato nel libro Oriana Fallaci in New York – Una storia d’orgoglio, sono già stati in passato al centro di battaglie legali mosse contro testate e giornali che li hanno sfruttati senza un adeguato permesso. La loro paternità e la loro natura autoriale erano dunque già state riconosciute a livello giuridico, tuttavia non era scontato che questo genere di pretese potesse attecchire anche contro Meta, azienda che esercita un peso politico e finanziario tale da far chinare il capo persino alle teste coronate e ai politici. La Big Tech ha inoltre puntato su di una linea difensiva che i quotidiani non avrebbero mai potuto perseguire, ovvero ha cercato di convincere la corte di non aver tratto alcuna forma di profitto dalla pubblicazione illegittima del lavoro di Minischetti.
«Meta ha sostenuto che i caricamenti sulla piattaforma non fossero a scopo di lucro e che gli utenti stessero semplicemente esercitando i propri diritti costituzionali. Vuoi perché attraverso queste foto potevano esprimere opinioni, critiche e satira nei confronti della Fallaci, o semplicemente discutere di un personaggio famoso. Vuoi perché gli utenti non hanno effettuato caricamenti con l’intenzione di guadagnare», spiega l’avvocato. «Secondo Meta, per estensione, anche lei non avrebbe scopo di lucro, il che mi sembra improbabile, considerando che fattura 100 miliardi di euro all’anno». Circa 146,4 miliardi di euro, stando ai dati del 2024.
«Alcune foto sono ancora lì, certi link non li hanno voluti rimuovere. Sostengono che servono agli utenti per socializzare tra di loro. Con le mie fotografie devono socializzare?», si domanda retoricamente Minischetti. Gli utenti «le hanno tutte deturpate, tagliate, storpiate, gli hanno aggiunto delle scritte ignobili. Un massacro totale. E alla fine chi ci ha guadagnato? Meta. […] Hanno visto che Oriana Fallaci, famosa in tutto il mondo, funzionava, che faceva da catalizzatore nella loro piattaforma».
Facebook e portali omologhi hanno in effetti molto da guadagnare, seppur indirettamente, dalla diffusione di contenuti virali. L’alto tasso di interazioni tra utenti soddisfa gli inserzionisti; inoltre, la partecipazione attiva delle persone genera una serie di dati che vengono poi monetizzati tramite la profilazione. «Dire che la partecipazione dell’utente non sia fonte di diretto guadagno per Meta è un falso storico. Se gli utenti non aderissero alla piattaforma e non fornissero i propri dati attraverso la partecipazione attiva, Meta non potrebbe fare nulla», sostiene Manganaro. Non a caso, nel 2021 il Consiglio di Stato ha sanzionato Meta per aver promosso i suoi servizi come gratuiti, senza spiegare puntualmente ai consumatori che, in realtà, i loro dati sarebbero stati adoperati a fini commerciali. A fine 2024, la Procura di Milano ha dunque aperto un’indagine contro Meta proprio per verificare la natura “gratuita” dei servizi offerti dal social, fiutando un’evasione fiscale quantificata in 4 miliardi di euro.
Tenendo in considerazione questi presupposti, la cosiddetta direttiva sul commercio elettronico prevede che Meta, pur rivestendo un ruolo passivo nel caricamento dei dati, in qualità di fornitore di servizi, abbia l’onere di rimuovere i contenuti che violano il diritto d’autore non appena questi vengano segnalati. Nel caso di Minischetti, Facebook ha reagito con colpevole lentezza, eliminando i file solo una volta che il processo è stato avviato, ed esclusivamente come “atto di prudenza”. Ormai condannata, Meta non potrà più caricare né condividere le immagini al centro della disputa e, in caso di violazione, i giudici prevedono una multa di 100 euro per ogni giorno di permanenza delle foto su Facebook.
Negli ultimi mesi, Meta e omologhi stanno esercitando forti pressioni sulla Casa Bianca per convincere l’Amministrazione Trump che le tasse e le leggi europee rappresentino dei “dazi” sotto mentite spoglie: un processo di persuasione che ha contribuito a far sì che gli USA esigessero dai partner europei la rinuncia, di fatto, della cosiddetta “digital tax”, una proposta di tassazione che è nata con l’obiettivo di impedire alle Big Tech di sfruttare stratagemmi al fine di limitare significativamente il versamento dei tributi. In generale, vige la sensazione che le istituzioni UE si stiano dimostrando accomodanti nei confronti degli interessi statunitensi, ma anche che si stiano dimostrando fin troppo pronte ad alleggerire le leggi interne che, dal GDPR all’AI Act, influenzano lo sviluppo digitale. La decisione del tribunale di Torino si muove dunque in controtendenza con l’ethos del momento, offrendo una pietra miliare giuridica tanto sorprendente quanto anomala.
Piuttosto che giungere a una sentenza, le grandi aziende preferiscono tradizionalmente trovare con le controparti soluzioni amichevoli che evitino loro qualunque ammissione di colpevolezza. In questo caso non è andata così: Facebook non ha trovato alcuna forma di compromesso ed è stata condannata, segnando una macchia netta nei suoi precedenti. Una leva che potrà essere sfruttata anche da azioni legali future. Considerando il modus operandi di Meta, è facile immaginare che la vicenda giuridica non possa ancora dirsi conclusa e che il confronto proseguirà in fase di appello; tuttavia, l’azienda non ha impugnato la decisione, né ha annunciato di volerlo fare. Il caso «solleva un’attenzione maggiore e mette un po’ tutti nella condizione di smettere di pensare che il copyright – attraverso questi strumenti digitali – possa essere degradato a un diritto secondario e calpestabile», conclude Manganaro. «Sicuramente mette i server provider in uno stato di maggiore attenzione, di maggiore allerta, su quello che fanno. Non basta più dire “lo ha caricato qualcun altro”».