Non credere ai giornali, fanno una pessima pubblicità al nostro Paese. Con un sorriso sornione, fa scivolare il mio passaporto nel vano sottostante al vetro divisorio che mi separa dall’operatore consolare. Il visto ingombra una pagina intera. Un rettangolo sul quale si staglia in stampatello: «Visto per visita ufficiale della Repubblica del Sud Sudan». Tra le mura dell’ambasciata del Sud Sudan a Nairobi, mi sento già il benvenuto nella nazione più giovane al mondo. Indipendente dal 2011, il Sud Sudan ha trascorso gran parte della sua breve esistenza in un conflitto costante. Ora, le ombre della guerra sembrano estendersi fino a Juba, la capitale, dove il capo dell’opposizione – nonché vice presidente – si trova agli arresti domiciliari. I politici parlano di un ritorno alla guerra civile, i media esortano la comunità internazionale a intercedere.
Ma i cittadini vivono senza curarsi dei titoli di giornale e degli annunci dei politicanti. C’è un senso di orgoglio tra i sudsudanesi nell’appartenere a una nazione nuova, indipendente, seppur imperfetta. Tutti sembrano condividere un sogno: elevare il Sud Sudan, renderlo prospero, equo e giusto. Il lavoro da fare è tanto.
Nella Repubblica sudsudanese, oltre 2,8 milioni di bambini non frequentano la scuola: il 70% della popolazione infantile. E la crisi si estende oltre i confini nazionali. La diaspora sudsudanese consta di 2,4 milioni di profughi, che vivono soprattutto nei Paesi limitrofi. Centinaia di migliaia nel campo profughi di Kakuma – uno tra i più grandi al mondo.
Mentre sistemo la valigia nel mio ufficio, Puol mi scruta con curiosità. Il mio viaggio è imminente. Abbiamo appena costituito un’organizzazione no profit nel Paese e ora è tempo di visitare il campo e attivare la missione: costruire la prima scuola di emergenza e riabilitazione gratuita per i bambini di Juba, la capitale. A Juba, l’istruzione è un lusso riservato a pochi: classi sovraffollate, infrastrutture precarie, bambini lavoratori, spose bambine – e prezzi alle stelle. Sì, perché la capitale soffre degli effetti collaterali dell’aiuto umanitario. Con oltre 20 miliardi di dollari di fondi allo sviluppo ricevuti nell’ultimo decennio, l’economia di Juba è stata permanentemente alterata. E così, quella del resto del Paese. Puol vuole dirmi qualcosa, ma sta ancora cercando le parole in inglese, lingua che ha scoperto pochi mesi fa, quando ha cominciato a far parte della nostra Scuola Internazionale a Nairobi. Lui fa parte dei figli dimenticati del Sud Sudan. È cresciuto nel campo profughi di Kakuma, in Kenya, dove ha trovato rifugio insieme alla madre. Scappare dal Sud Sudan, tuttavia, non ha permesso loro di evadere la miseria. Nel campo di Kakuma, Puol e la mamma hanno subìto sistematicamente abusi.
Gli dico che di lì a poco sarei andato a Juba e i suoi grandi occhi neri brillano. Mi chiede se può venire con me. Ha pochi ricordi della sua terra natia e, nonostante tutto, il suo cuore arde per lo stesso Paese che lo ha costretto a fuggire. Parto. Dall’oblò dell’aereo in frenata d’atterraggio, una batteria di aerei leggeri si susseguono come tante diapositive. Ne conto 15, ma potrebbero essere di più. Portano due maiuscole dipinte sulla carrozzeria: “UN”, Nazioni Unite. Le poche macchine che solcano le arterie principali della città sono opulente e sufficientemente ingombranti da creare ingorghi e traffico nei sottili incroci e strette rotonde. Ci sono targhe di tutti i colori. Rosse, verdi, azzurre, bianche, ognuna esprime una solennità e un potere diverso. Nazioni Unite, ONG, governo, ambasciate. E divise di altrettanti colori. Militari, polizia, forze di sicurezza e caschi blu. Un senso di finzione permea la città.