Non senza parecchie e ovvie difficoltà logistiche – ma anche politiche –, l’Associazione Stampa Romana è riuscita ad allestire e tenere un seminario nell’ambito della formazione obbligatoria dell’Ordine dei Giornalisti, dal titolo emblematico: Gaza e informazione nel mirino. Le testimonianze dei giornalisti sotto le bombe. Le difficoltà non sono mancate: da più parti è giunta agli organizzatori l’accusa di essere simpatizzanti o sostenitori di Hamas. Il semplice fatto di dare la parola a chi, per lavoro, deve raccontare quello che accade in Palestina ha suscitato malumori e acceso critiche anche in Italia.
Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, ha aperto i lavori denunciando le reticenze e polemiche che emergono perfino sull’uso del termine “genocidio”: «Le cose vanno chiamate col loro nome e non bisogna avere esitazioni nell’usare questa parola», ha ribadito, sostenuto da Anna Foa, storica ebrea e professoressa emerita dell’Università La Sapienza, membro del Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah e autrice de Il suicidio di Israele (Laterza, 2024), candidato al Premio Strega 2025.
La stessa Foa ha raccontato come la drammaticità della situazione l’abbia convinta a sostenere un embargo nei confronti di Israele, pur riconoscendo l’esistenza di aree di pensiero critico – come le università – all’interno dello Stato. Noury ha inoltre sottolineato come l’ennesima risoluzione ONU per Gaza, bocciata con veto dagli USA, allontani ancora di più la possibilità di fermare il genocidio in corso.
L’obiettivo del webinar era raccontare, attraverso le voci dei cronisti, le difficoltà e i rischi di chi informa sul campo: a Gaza e in Palestina, oggi, fare il giornalista è estremamente pericoloso. Sono 222 i cronisti uccisi dall’inizio dell’operazione militare israeliana. 178 sono stati arrestati, 48 si trovano ancora in prigioni israeliane, dove subiscono torture fisiche e psicologiche, privazioni di cibo e cure mediche.
Dall’8 ottobre 2023, il governo israeliano ha bandito l’ingresso dei giornalisti stranieri nella Striscia di Gaza, consentendo solo l’accesso a troupe embedded con l’esercito e sottoposte all’approvazione militare. Con una legge dell’aprile 2024, Israele ha chiuso le sedi dei media stranieri nel Paese, con la motivazione di «proteggere la sicurezza nazionale».
Questo ha prodotto un vero e proprio blackout informativo, un buco nero in cui scompaiono non solo civili, ma anche i giornalisti. Come ha sottolineato ancora Anna Foa: «I testimoni scomodi della verità vengono eliminati o messi a tacere in ogni dittatura».
Haggai Matar, giornalista israeliano e direttore esecutivo di +972 Magazine, ha denunciato la disinformazione sistematica imposta da media israeliani: «Alcuni giornalisti si uniscono all’esercito durante i raid, uno è stato persino ripreso mentre sparava contro un’abitazione. C’è una censura generalizzata, ma la vera censura è autoimposta dai giornalisti stessi».
Matar ha parlato di minacce anonime, di droni abbattuti e omicidi mirati. Ha ricordato che nel solo 2024 oltre 1000 articoli sono stati bloccati o modificati. «Dal 7 ottobre si parla solo di quell’attacco, ma nulla su quanto accade a Gaza. È una scelta: raccontare o coprire».
Shrouq Al Aila, giornalista e produttrice palestinese, oggi alla guida della società Ain Media dopo l’uccisione del marito e cofondatore Roshdi Sarraj, ha detto: «Non posso garantire che sarò viva tra due minuti. L’odore della morte è sempre intorno a noi. Restare vivi è una forma di resistenza».
Shuruq As’ad, storica conduttrice della Palestine TV e corrispondente per Dubai TV, ha parlato da Rafah, raccontando la vita quotidiana in Cisgiordania: «Ci sono 980 check-point. Da Rafah a Gerusalemme ci vogliono tre ore, umiliazioni e minacce continue. I coloni attaccano anche se indossi il giubbotto ‘stampa’», Ha denunciato la distruzione di 112 sedi di media, la scomparsa di 170 giornalisti, e il fatto che una volta arrestati, «nessuno può aiutarti: né la Croce Rossa, né avvocati». Ha concluso: «Non è un conflitto. È un’occupazione. Abbiamo tutto il diritto di parlare di genocidio. L’80% del territorio è distrutto. Non accetto più che gli israeliani si sentano vittime».
Faten Elwan, giornalista esperta di zone di guerra, ha raccontato:«Nel 2001, a un check-point, un soldato mi ha sparato da tre metri. Non c’era Hamas. È squallido dire che lo sosteniamo». Elwan ha parlato degli anni di carcere, delle minacce alla madre, e di come:«Viviamo nel terrore. Hanno cancellato 2800 famiglie. E ci sono funzionari che dicono: ogni neonato palestinese è un obiettivo».Ha concluso con un grido d’accusa: «Sono stanca di dover spiegare all’Occidente perché abbiamo diritto ad esistere».
Impossibile spiegare, impossibile far capire anche a chi così di testa dura, da non aver capito già🤣