giovedì 12 Giugno 2025

I Bad Boys di Detroit: contro tutto e tutti

Il graduale smantellamento delle fabbriche di General Motors portò, nella popolazione della Detroit anni ’70, sempre più sola e senza alternative, un sentimento di rabbia nei confronti dell’establishment statunitense. Nello stesso momento, la squadra di basket della città, i Detroit Pistons, viveva un periodo di grave difficoltà, dimostrando svogliatezza e ottenendo scarsi risultati. Il punto più basso coincise con la stagione disastrosa del 1979-80, durante la quale la squadra fece un record di sole 16 vittorie su 82 partite. 

A scuotere la situazione fu il cambio dirigenziale avvenuto nel 1979, quando l’ex giocatore e allenatore Jack McCloskey divenne direttore generale del franchise. Per iniziare la trasformazione, necessitava di un giocatore giovane che potesse rappresentare alla perfezione il progetto e sul quale costruire la fiducia della squadra e della città stessa. La possibilità di scovare questa figura si presentò con il Draft del 1982; i Pistons ebbero l’opportunità di seconda scelta tra i giovani del circuito collegiale e selezionarono il ventenne di Chicago Isiah Thomas.

Abbandonato in tenera età dal padre e cresciuto in ristrettezze economiche, Thomas si avvicinò al basket a soli tre anni. Alto poco più di un metro e ottanta, dotato di una velocità e una capacità di manipolare la palla fuori dal comune, Thomas riuscì rapidamente a prendere il comando di una squadra rimasta per troppo tempo allo sbando. Per strutturarne la spina dorsale, venne inserito come centro Bill Laimbeer, ex membro dei Cleveland Cavaliers. Anche lui di Chicago, dopo aver giocato anche nella Basket Brescia, Laimbeer avrebbe messo in atto il “lavoro sporco” in difesa. Duro, scorretto e provocatore, il nuovo centro lavorava sotto canestro per intimorire gli avversari ed elevare i giri della difesa della squadra. Per dare vita a un progetto strutturato e duraturo, però, serviva un direttore d’orchestra: nel 1983 il testimone venne raccolto da Chuck Daly, che riuscì nell’impresa di portare i Pistons ai playoff per due anni di fila, dove persero prima contro i New York Knicks e poi contro i Boston Celtics.

Il quintetto di partenza vide aggiungersi due ulteriori giocatori essenziali per il franchise: la guardia tiratrice Joe Dumars e l’aggressivo Rick Mahorn. I due, caratterialmente opposti, rappresentarono l’intenzione di raggiungere i playoff e questa volta ambire ai piani alti del campionato. Nonostante ciò, gli Atlanta Hawks infransero rapidamente i sogni di gloria, sconfiggendo i Pistons al primo turno.

L’arrivo della matricola Dennis Rodman, miglior rimbalzista della storia ed eccentrico personaggio dentro e fuori dal campo, permise di impostare un gioco ancora più duro, finalizzato all’annichilimento degli avversari. La nuova squadra, che venne presto soprannominata “Bad Boys”, raggiunse in quell’annata le prime finali di Conference della sua storia. In una serie avvincente contro i Boston Celtics, campioni in carica, i Pistons dimostrarono di potersela giocare contro chiunque, grazie a uno stile di gioco mai visto prima, dove la fisicità, la tensione e l’utilizzo di scorrettezze scuotevano anche le squadre con più qualità. La serie, conclusa a gara 7, vide la vittoria dei Celtics, trainati dai 37 punti di Larry Bird. 

L’anno successivo furono i Pistons ad avere la meglio e approdarono alle finali NBA per affrontare le stelle dei Los Angeles Lakers. Gli stili di gioco delle due squadre non potevano essere più diversi: lo showtime dei losangelini, diretto dalla qualità di Magic Johnson, contro la fisicità e l’orgoglio di Detroit. La serie si fece rapidamente avvincente e tesa, tanto da rompere il legame di amicizia che univa Johnson e Thomas. Fu quest’ultimo a compiere una delle prestazioni più leggendarie della storia del basket mondiale: durante gara 6 e sotto 3-2, Isiah Thomas, nell’atterraggio da un salto, si procurò una grave distorsione alla caviglia aprendo così la possibilità per i Lakers di chiudere la pratica e vincere il titolo. Dopo essere stato fasciato e ancora zoppicante, il leader di Detroit restò in campo e segnò 25 punti in soli 12 minuti, trascinando la sua squadra verso la vittoria e il pareggio nella serie. Nonostante lo sforzo compiuto, in gara 7 furono i Lakers ad avere la meglio, vincendo così il titolo.

Nel 1989 non ci furono rivali. Grazie all’aggiunta nel roster di Mark Aguirre, la squadra dominò la stagione, vinse le finali di Conference contro i Chicago Bulls di Michael Jordan e si prese la rivincita contro i Lakers. I Bad Boys sradicarono il dominio patinato delle squadre protagoniste del gioco per un decennio. Nel 1990 la squadra consolidò la propria supremazia, vincendo ancora una volta contro un incontenibile Michael Jordan e riconfermandosi campioni contro i Portland Trail Blazers. La magia terminò con quel titolo. Dopo le finali di conference del 1991, che videro lo schiacciante 4-0 dei Bulls e la scelta di abbandonare il campo a sette secondi dalla fine senza salutare gli avversari, i Bad Boys svanirono. Chuck Daly passò a New Jersey, il manager McCloskey a New York, Dennis Rodman finì ai San Antonio Spurs, dopo una rissa in allenamento contro l’amico Isiah, Bill Laimbeer decise per il ritiro e il leader Isiah Thomas si ritirò dopo la rottura del tendine d’Achille. 

Ebbe così fine l’era del gioco duro. Il successo di questo gruppo non fu significativo solo per la NBA, ma rappresentò il sogno di rivalsa di un’intera città. Davanti alle squadre più pettinate e opulente, i Pistons furono il simbolo dell’orgoglio e della fiducia di squadra: duri, scorretti e cattivi, i Bad Boys furono il bastone tra le ruote dell’establishment e della ricchezza.

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Armando Negro

Laureato in Lingue e Letterature straniere, specializzato in didattiche innovative e contesti indipendentisti. Corrispondente da Barcellona, per L’Indipendente si occupa di politica spagnola, lotte sociali e questioni indipendentiste.

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