Lo scorso aprile, nonostante vera e propria campagna diffamatoria mossa da Israele e Stati Uniti, è stato rinnovato il mandato come relatrice speciale ONU per la Palestina a Francesca Albanese. Nei suoi confronti sono state lanciate le solite accuse di antisemitismo, usate strumentalmente contro chiunque cerchi di inchiodare Israele alle proprie responsabilità di fronte alla legge internazionale. Albanese ha davanti ancora tre anni per continuare il lavoro iniziato nel 2022 e portare nelle sedi istituzionali una voce a favore del popolo palestinese. Gli impegni che si è assunta sono diversi e complicati, e si muovono sullo sfondo di un genocidio ancora in corso: noi de L’Indipendente l’abbiamo sentita telefonicamente, per farci raccontar6ìèe cosa le si prospetta davanti con questo nuovo mandato.
Con la riconferma come relatrice speciale ha davanti altri tre anni. Cosa vuole fare in questo periodo?
Quello che ho fatto finora: esporre la strutturalità e la sistematicità delle violazioni israeliane. In questi anni ho centrato la questione attorno a temi come quelli dell’autodeterminazione, del diritto a esistere, dell’occupazione, perché aiutano la Corte Internazionale di Giustizia ad affrontare il dibattito dal punto di vista giuridico. Israele vìola completamente e incondizionatamente questi diritti. Il mio lavoro vuole esporre la sistematicità di queste violazioni: degli arresti, della segregazione, della privazione della libertà attraverso le carceri e fuori dalle carceri, dell’oppressione burocratica, della sorveglianza. Tutto questo contribuisce a spiegare la natura vessatoria delle leggi e delle pratiche che Israele mette in campo nei c o n f r o n t i dei palestinesi – oltre a esporre il genocidio, naturalmente.
Su cosa sta lavorando questo momento?
La mia analisi corrente si sofferma sugli enti privati, sulle compagnie militari e di sorveglianza tecnologica, sulle banche, sui fondi pensione, sulle organizzazioni a scopo caritatevole e sulle università che contribuiscono al genocidio palestinese. Come dico sempre: se la Palestina fosse la scena di un crimine, ci sarebbero centinaia di impronte digitali di complici insospettabili. Intendo poi condurre un’indagine su quello che gli Stati hanno fatto per conformarsi alla richiesta di fine dell’occupazione della Corte Internazionale di Giustizia, perché credo che questo sia il tema cruciale di cui si deve parlare. Nel 2024 la Corte si è pronunciata sull’illegalità dell’occupazione israeliana, affermando che questa viola articoli di carte internazionali sulla discriminazione razziale e l’apartheid. Voglio anche investigare il fenomeno del razzismo anti-palestinese, che è trasversale e transnazionale. Lo abbiamo visto dopo il 7 ottobre: i palestinesi non sono solo stati massacrati, ma anche incolpati e vilipesi a tutte le latitudini.
Crede che sia cambiato qualcosa in questi mesi? L’elezione di Trump ha regalato a Israele un’impunità ancora maggiore di quella di cui già godeva?
Credo che l’arrivo di Trump alla presidenza americana abbia avuto due effetti sulla questione palestinese: da una parte, ha amplificato il supporto all’impunità israeliana, arrivando a un’esplicita complicità nei crimini che Israele sta commettendo. Nel momento in cui Trump sostiene che ricostruirà Gaza come se fosse una riviera, al di là della assurdità dell’affermazione, c’è dell’immoralità, della mancanza di etica politica. Tutto questo giunge fino all’illegalità, perché Trump fa rientrare lo sfollamento forzato dei palestinesi all’interno delle sue stesse politiche. Se prima si supportava Israele, adesso viene di fatto posto un obiettivo dichiarato. Il secondo effetto che ha avuto l’elezione di Trump è il taglio alla radice di una serie di diritti costituzionali che costituirebbero le fondamenta stesse della cosiddetta democrazia americana, come la libertà d’espressione la libertà di manifestare. Con l’aumento della repressione che è in corso diventa più difficile contestare il potere dall’interno.
Nelle dichiarazioni di Trump che ha citato non si profila una violazione del diritto internazionale? Trump potrebbe essere perseguito per le sue dichiarazioni?
Riguardo alla perseguibilità, credo sia più una questione relativa a quali siano i limiti della legge, e in questo caso della legge sulla prevenzione e l’obbligo di porre fine e punire il genocidio. Questi limiti sono chiarissimi: non si deve aiutare uno Stato che sta commettendo o potrebbe stare commettendo un genocidio. Il procedimento avviato dalla Corte Internazionale di Giustizia il 24 gennaio 2024, quando si è pronunciata sulle misure cautelari, ha messo in mora tutti gli Stati. Quella pronuncia indica una segnalazione ufficiale: bisogna smettere di trasferire armi a Israele. E gli Stati Uniti hanno continuato a farlo. In un mondo ideale sì, Trump dovrebbe essere inquisito, ma non solo lui. Anche Biden, per il supporto materiale che ha dato durante la commissione di crimini di guerra. Perché ricordo che ci sono due persone, ai vertici del governo israeliano – il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e l’ex ministro della Difesa Yoav Gallant – su cui pende un mandato d’arresto della Corte Penale Internazionale per crimini di guerra e crimini contro l’umanità.
Parallelamente alle politiche di Trump, assistiamo anche da parte di altri Stati – tra cui la stessa Italia, col caso Almasri – a un disinteresse nei confronti di organi internazionali che dovrebbero essere rispettati. Spesso davanti a queste violazioni ci si chiede, con un certo pessimismo, a che cosa serva il diritto internazionale.
Capisco il pessimismo della ragione, ma dobbiamo capire che il problema non è con la norma scritta, bensì con l’applicazione e l’adempimento degli obblighi derivanti dalle norme. Sbagliano quelli che vedono che non ci sono progressi perché i progressi ci sono. Le compagnie disinvestono, c’è consapevolezza sulla necessità di fermare i coloni e la loro violenza, c’è cognizione di quanto queste violazioni siano legate anche alla complicità dei governi occidentali. Se non ci fosse stata tutta questa attenzione internazionale la popolazione di Gaza sarebbe stata già cacciata dalla Striscia. Tre anni fa, quando sono diventata relatrice speciale, Israele era ancora percepito come una democrazia: oggi non è più così, è cambiata la percezione. E se vediamo i gangli del sistema, riusciamo anche ad affrontarlo.
Che ruolo ricopre la mobilitazione in questa presa di coscienza?
Se uno Stato non rispetta le sue leggi, sacrificando così i diritti delle cittadine e dei cittadini, questi reagirebbero: farebbero scioperi, darebbero fastidio al sistema, creerebbero una massa critica che vuole il rispetto dello Stato di diritto, perché nello Stato di diritto c’è la protezione di noi tutte e tutti. Non puoi aspettarti che le cose cambino con la tastiera. Le lotte si fanno col corpo, con la presenza fisica, manifestandosi attraverso l’azione. Io dico: perché protestare? Perché innanzitutto è un atto di cura nei confronti di sé stessi, perché ritrovarsi tra i propri simili fa bene allo spirito, perché ti fa sentire meno solo, ti fa sentire meno folle. Come è stato durante il periodo della lotta contro la mafia: il colpo più grosso che sia stato inflitto alla criminalità organizzata è arrivato quando la società ha alzato la testa e ha spaccato il muro dell’omertà.