Nel giro di poche ore, la Corte Costituzionale ha tracciato una nuova linea nel dibattito sulla genitorialità nel nostro Paese. I giudici hanno infatti sancito il riconoscimento automatico della “madre intenzionale” di un bambino nato in Italia da una coppia di donne che ha effettuato fuori dal Paese la procreazione medicalmente assistita (PMA), mentre ha giudicato legittima la scelta del legislatore di dire no al diritto delle donne single ad avere un figlio con la medesima pratica in Italia. Due statuizioni, l’una dirompente e l’altra conservativa, che pongono il Parlamento di fronte all’urgenza di ripensare all’impianto complessivo della legge 40 del 2004, già smontata in più punti dalla stessa Consulta.
La sentenza 68/2025 è stata emessa sulla scia di un caso seguito dall’associazione Rete Lenford – Avvocatura per i diritti LGBTI, che ha accompagnato nella battaglia giudiziaria una coppia di donne italiane. Nello specifico, la Consulta si è espressa circa l’articolo 8 della legge numero 40 del 2004, limitatamente alla parte in cui «non prevede che pure il nato in Italia da donna che ha fatto ricorso all’estero» alla PMA abbia riconosciuto sin dalla nascita lo stato di figlio della donna che nella coppia non ha portato avanti la gravidanza. Secondo quanto stabilito, esso viola l’articolo 2 della Costituzione per la «lesione dell’identità personale del nato e del suo diritto a vedersi riconosciuto sin dalla nascita uno stato giuridico certo e stabile», l’art. 3 «per la irragionevolezza dell’attuale disciplina che non trova giustificazione in assenza di un controinteresse» e l’art. 30 «perché lede i diritti del minore a vedersi riconosciuti, sin dalla nascita e nei confronti di entrambi i genitori, i diritti connessi alla responsabilità genitoriale e ai conseguenti obblighi nei confronti dei figli». La sentenza, chiarisce la Corte, «non attiene alle condizioni che legittimano l’accesso alla PMA in Italia» su cui, in un ulteriore sentenza, la Consulta ha dichiarato legittimo il divieto della pratica.
Di segno diverso è invece la pronuncia che attiene all’articolo 5 della legge 40, rispetto a cui il Tribunale di Firenze aveva sollevato giudizio di legittimità costituzionale dopo che una 40enne di Torino aveva fatto richiesta di poter accedere alla PMA in una clinica toscana, ricevendo un rifiuto. La Consulta ha sentenziato che, nell’attuale impianto normativo, «non consentire alla donna di accedere da sola alla PMA rinviene tuttora una giustificazione nel principio di precauzione a tutela dei futuri nati». Secondo i giudici, infatti, è proprio nel loro interesse che il legislatore ha scelto «di non avallare un progetto genitoriale che conduce al concepimento di un figlio in un contesto che, almeno a priori, esclude la figura del padre». Riconoscendo comunque «l’assenza di impedimenti costituzionali a ché il legislatore estenda l’accesso alla PMA anche a nuclei familiari diversi da quelli indicati nell’articolo 5 della legge 40», i giudici hanno stabilito che «la compressione dell’autodeterminazione procreativa della donna singola non può, nell’attuale complessivo quadro normativo, ritenersi manifestamente irragionevole e sproporzionata», mentre rientra nella discrezionalità del legislatore aver ricondotto le finalità della legge 40 al «favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dalla infertilità umana».
Approvata nel 2004, la legge 40 sulla procreazione medicalmente assistita è stata fin da subito oggetto di critiche per la sua rigidità. Due sentenze della Corte Costituzionale ne hanno profondamente modificato l’impianto. Nel 2009 è caduto il limite dei tre ovociti inseminabili per ciclo e il divieto di crioconservazione degli embrioni sovrannumerari, consentendo ai medici maggiore discrezionalità in base alle condizioni cliniche. Cinque anni più tardi è stato abolito anche il divieto di fecondazione eterologa, permettendo l’utilizzo di gameti da donatori esterni non retribuiti. Queste modifiche hanno reso la legge più flessibile, ma ogni cambiamento – come sottolineato dagli esperti – deve sempre porre al centro la tutela del nascituro, che non deve mai essere considerato un oggetto di consumo.
Mamma mia (ne ho solo una, ahimè…), che pantano!