The State of the World’s Indigenous Peoples è il rapporto annuale redatto dal Forum permanente delle Nazioni Unite sulle questioni indigene (UNPFII). L’ultima edizione, pubblicata il 24 aprile scorso, evidenzia un netto squilibrio, una disuguaglianza: sebbene i popoli indigeni rappresentino solo il 6% della popolazione mondiale, custodiscono l’80% della biodiversità residua del pianeta, ma ricevono meno dell’1% dei finanziamenti internazionali destinati ai programmi di protezione ambientale. Il rapporto propone una valutazione che invita a riflettere: l’azione in favore della protezione ecologica non solo è priva dell’urgenza necessaria, ma è anche profondamente iniqua. Dai progetti di energia rinnovabile imposti senza consenso alle decisioni politiche prese in contesti da cui le voci indigene sono escluse, queste comunità non solo vengono tagliate fuori dalle soluzioni, ma sono anche sfollate dalle proprie terre da iniziative “verdi” che in realtà sono guidate dal mercato e dal profitto.
«Anche se siamo colpiti in modo sproporzionato dalla crisi climatica, i popoli indigeni non sono vittime», scrive nel rapporto Hindou Oumarou Ibrahim, presidente del Forum permanente delle Nazioni Unite sulle questioni indigene, «siamo custodi del mondo naturale, impegnati a mantenere l’equilibrio del pianeta per le generazioni a venire». Il rapporto sollecita un cambiamento radicale nel modo in cui la conoscenza indigena viene compresa e rispettata, troppo spesso ridotta a elemento «tradizionale» o folcloristico, anziché riconosciuta come sapere scientifico e tecnico. I sistemi di conoscenza indigeni, sottolineano gli autori, sono «testati nel tempo, guidati dal metodo» e fondati su relazioni dirette con ecosistemi che hanno sostenuto la vita per millenni.
Ad esempio, in Perù, una comunità quechua di Ayacucho ha rilanciato pratiche di semina e raccolta dell’acqua per adattarsi al ritiro dei ghiacciai e alla siccità. Questi metodi, parte della gestione ancestrale dei cicli idrologici, vengono oggi condivisi oltre i confini con agricoltori costaricani come modello di cooperazione climatica Sud-Sud. In Somalia, le tradizioni orali fungono da legge ecologica. Il rapporto cita norme culturali come i divieti di abbattere determinati alberi (gurmo go’an) come esempio di governance ambientale trasmessa attraverso la saggezza generazionale, veicolata da proverbi, storie e tabù, piuttosto che da leggi e norme. Nel frattempo, il popolo Comcaac del Messico codifica la conoscenza ecologica e marittima nella propria lingua. Nomi come Moosni Oofia («dove si riuniscono le tartarughe verdi») e Tosni Iti Ihiiquet («dove i pellicani depongono le uova») fungono da dati viventi, «vitali per la loro sopravvivenza».
Il rapporto evidenzia le storture e i paradossi del presente: sebbene il mondo si avvii verso un futuro alimentato da energia rinnovabile, molti popoli indigeni si ritrovano in prima linea non come partner della transizione ecologica, ma come vittime collaterali di alcune soluzioni proposte. «Le cosiddette soluzioni verdi spesso rappresentano una minaccia per le popolazioni indigene quanto la crisi ecologica stessa», si legge nel rapporto. Dall’espansione dei biocarburanti ai meccanismi di compensazione del carbonio (di cui abbiamo parlato dettagliatamente in questo articolo) e ai mercati ad esso legati, fino all’estrazione di minerali per le tecnologie energetiche pulite, la nuova economia verde si fonda troppo spesso su ingiustizie di stampo coloniale e razzista.
Per le popolazioni indigene, molto spesso, i progetti green si traducono in sfollamento, deportazione e distruzione sociale, e persino — per quanto possa sembrare paradossale — in devastazione ambientale. Alla base di questi interventi rimane infatti il principio del profitto: la mercificazione di processi che dovrebbero generare benefici ambientali e sociali finisce per produrre l’effetto opposto. Il rapporto sottolinea in più punti che, se le azioni per il clima e l’ambiente continueranno a essere progettate e attuate senza porre i popoli indigeni al centro, rischieranno di replicare i sistemi estrattivi ed esclusivi che hanno generato e alimentato la crisi stessa.
Il documento invoca quindi un cambiamento strutturale: non si tratta solo di aumentare i finanziamenti, ma di modificare profondamente chi li gestisce. Tra le raccomandazioni principali figurano la creazione di meccanismi finanziari guidati direttamente dalle popolazioni indigene, il riconoscimento formale dei loro sistemi di autogoverno e la sovranità dei dati, affinché siano le comunità stesse a controllare le modalità con cui vengono raccolte e utilizzate le conoscenze sui loro territori e mezzi di sussistenza. Senza una trasformazione di questi sistemi, avverte il rapporto, la transizione ecologica rischia di riprodurre gli stessi schemi di esclusione ed espropriazione che, da sempre, minano i diritti indigeni e ostacolano gli obiettivi ambientali globali.
[di Michele Manfrin]