mercoledì 21 Maggio 2025

Alessandria: dove gli PFAS prodotti da Solvay avvelenano il sangue dei cittadini

Entriamo in contatto con sostanze inquinanti ogni giorno, spesso senza nemmeno farci caso. Ma una cosa è sapere che l’inquinamento esiste, un’altra è scoprire di averlo dentro. Nel sangue. È quanto accaduto agli abitanti di Spinetta Marengo, frazione di Alessandria, in Piemonte, nota un tempo per la storica battaglia tra le truppe di Napoleone Bonaparte e l’esercito austriaco, e oggi per una crisi ambientale che ha travolto la comunità. Negli ultimi anni, il nome di Spinetta Marengo è infatti legato alla contaminazione da PFAS, sostanze chimiche definite “eterne” perché si accumulano nell’ambiente e nell’organismo umano senza degradarsi. Le conseguenze dell’esposizione sono gravi: i PFAS sono associati a tumori, disturbi ormonali e patologie cardiovascolari, rappresentando una minaccia a lungo termine per la salute di chi vive in quest’area.

Ma come si è arrivati a questo punto? Secondo le analisi condotte negli ultimi anni, la fonte della contaminazione è un impianto chimico attivo da decenni, che ha lasciato un’impronta tossica nelle acque e nei terreni della zona. A gestirlo è stata per anni la multinazionale belga Solvay. Oggi l’impianto è formalmente passato a Syensqo, ma si tratta di un cambiamento solo apparente: Syensqo è una divisione di Solvay, creata nel 2023 all’interno di un’operazione di riorganizzazione societaria. A guidarla è Ilham Kadri, già amministratrice delegata di Solvay, a conferma di una continuità gestionale e operativa tra le due realtà. L’azienda continua tuttora a operare sul sito, seppur attraverso Syensqo, una sua controllata specializzata nei materiali avanzati e nelle soluzioni chimiche ad alte prestazioni. 

Un’eredità tossica 

Tra il 2019 e il 2023 Ilham Kadri è stata amministratore delegato di Solvay. Dopo la scissione della società nel dicembre 2023, ha continuato a ricoprire la carica di CEO di Syensqo

Lo stabilimento chimico di Spinetta Marengo ha una storia che inizia nei primi del Novecento. Fondato nel 1905 da un gruppo di imprenditori locali, l’impianto avviò la produzione di composti chimici di base, tra cui pigmenti, acidi e, in particolare, solfato. Negli anni ’30, in piena crisi economica, l’impianto viene acquisito dalla Montecatini, allora gigante dell’industria chimica italiana, che ne amplia le attività. Nel dopoguerra inizia una nuova fase di espansione, culminata nella fusione tra Montecatini ed Edison nel 1966, che porta la fabbrica sotto il controllo di Montedison, uno dei colossi industriali europei.

Negli anni ’70, l’impianto si orienta sulla produzione di polimeri fluorurati, plastiche particolarmente resistenti ma difficili da smaltire. Questa direzione produttiva resta centrale fino agli anni ’90, quando lo stabilimento passa prima ad Ausimont, controllata di Montedison, e poi nel 2002 alla multinazionale belga Solvay. È in questo periodo che la produzione di polimeri speciali e fluorurati — tra cui i PFAS, composti poli e perfluorurati noti per la loro persistenza nell’ambiente e nel corpo umano — diventa uno dei fulcri dell’attività. Anche dopo il 2023, quando l’impianto viene formalmente trasferito a Syensqo la produzione di sostanze chimiche avanzate prosegue, mantenendo elevato il rischio di contaminazione ambientale.

Se si guarda la cronologia dal punto di vista produttivo, a Spinetta Marengo è passato di tutto. L’impianto ha iniziato con la chimica degli acidi forti, come l’acido solforico e fluoridrico, per poi spostarsi sulla produzione di cromati e bicromati, sostanze che possono provocare irritazioni, corrosioni delle mucose e, nei casi più gravi, ulcerazioni e perforazione del setto nasale. Col tempo, la produzione si è concentrata sui fluoroderivati, segnando la fase in cui i PFAS diventano centrali per lo stabilimento. Utilizzati in una vasta gamma di applicazioni industriali e di consumo, questi composti hanno lasciato cicatrici profonde sull’ambiente e sulla salute.

Quello che per decenni è stato considerato un esempio di successo industriale si è rivelato, col passare del tempo, un’eredità tossica: una realtà che continua a generare inquinamento e a minacciare la salute delle persone e degli ecosistemi in un’intera area del territorio.

I PFAS a Spinetta Marengo

Per anni, l’inquinamento a Spinetta Marengo è stato un sospetto più che una certezza. Se negli anni ’80 si parlava già dell’impatto ambientale dello stabilimento chimico, a mancare erano però dati e prove. Almeno fino al 2007, quando, secondo uno studio coordinato dall’Università di Stoccolma e citato dall’organizzazione ambientalista Greenpeace, il polo chimico della Solvay viene indicato come la principale fonte di PFOA (una molecola appartenente al gruppo PFAS, classificata dall’OMS come cancerogena per l’uomo) nel bacino del Po.

Concentrazioni di PFAS in varie province del Piemonte [elaborazione grafica: L’indipendente]
A far scattare l’allarme è un evento del tutto casuale. In quell’anno una nota catena di supermercati chiede di acquistare un terreno poco distante dalla fabbrica. Per ottenere i permessi, vengono condotte analisi sulla falda acquifera. I risultati forniti da ARPA Piemonte parlano chiaro: l’acqua è contaminata. Nel 2008, l’Istituto di Ricerca sulle Acque (IRSA-CNR) avvia uno studio sulla diffusione dei PFAS nei corpi idrici italiani. La ricerca, durata 24 mesi, conferma che lo stabilimento di Spinetta Marengo è una delle principali fonti di PFOA, sostanza che appartiene al gruppo PFAS.

Nel 2019, nuovi dati di ARPA Piemonte (Agenzia Regionale per la Protezione Ambientale), rivelano che la contaminazione non riguarda solo le acque superficiali. Le falde acquifere continuano a essere compromesse, dimostrando che la barriera idraulica installata dall’azienda per contenere l’inquinamento è inefficace. E non è tutto: a partire dal 2020 emerge un aspetto ancora più preoccupante. I PFAS non si fermano all’acqua, ma si disperdono nell’aria, trasportati dai venti ben oltre l’area dello stabilimento. L’inquinamento, insomma, non è circoscritto a Spinetta Marengo. Indagini condotte da Greenpeace Italia nel 2024 dimostrano che il C6O4, una molecola appartenente alla categoria generale dei PFAS e prodotta esclusivamente in questo stabilimento, è arrivata perfino nelle acque potabili di comuni lontani, da Torino alla Valle di Susa, fino alla provincia di Sondrio. Un’accusa a cui Syensqo ha risposto con un comunicato in cui, tra le altre cose, scrive: «C6O4 è l’unico fluorotensioattivo ancora prodotto a Spinetta Marengo e viene gradualmente eliminato. È registrato nell’ambito della legislazione europea (REACH) e non è bioaccumulabile né biopersistente». 

Ma il problema non è solo ambientale. Le ultime analisi condotte nel giugno 2024 su un campione di 36 cittadini hanno rilevato che il 100% dei soggetti presentava concentrazioni di PFAS superiori ai 2 nanogrammi per millilitro, il limite oltre il quale possono manifestarsi effetti dannosi per la salute.

Perché sono dannosi 

I PFAS (sostanze perfluoroalchiliche) costituiscono una vasta famiglia di composti chimici artificiali, con oltre 4700 varianti conosciute. Queste sostanze si sono distinte nell’industria per la loro straordinaria resistenza al calore, all’acqua e ai grassi, grazie ai fortissimi legami chimici tra carbonio e fluoro. Una caratteristica che le rende ideali per applicazioni che richiedono materiali durevoli e impermeabili, come rivestimenti per padelle antiaderenti, tessuti, schiume antincendio, prodotti per la pulizia e cosmetici. La loro grande diffusione è legata proprio a questa resistenza, un vantaggio per le aziende da una parte, un danno inestimabile per l’ambiente e per il corpo umano dall’altra. Una volta introdotti, i PFAS restano infatti in circolo per anni, se non decenni, rappresentando un serio rischio per la salute degli esseri viventi. Essendo così persistenti, tendono ad accumularsi nel corpo umano, penetrando attraverso diverse vie: l’acqua potabile contaminata è una delle principali fonti di esposizione, ma anche l’aria e la catena alimentare possono diventare veicoli di contaminazione.

Concentrazioni di PFAS in località del vercellese a confronto con Spinetta Marengo. Il limite di legge suggerito è 0.5 µg/L. Dati simulati a scopo illustrativo basati su criteri di valutazione generici dell’ARPA Piemonte [elaborazione grafica: L’indipendente]
Nel tempo, l’esposizione cronica a queste sostanze può causare danni significativi alla salute. Studi scientifici hanno collegato l’accumulo di PFAS nel corpo umano a problemi come malattie del fegato, disturbi del sistema immunitario, alterazioni del colesterolo e, in alcuni casi, danni al sistema riproduttivo. Inoltre, prove sempre più numerose suggeriscono che i PFAS contribuiscano allo sviluppo e alla progressione di specifici tipi di tumore, come il cancro ai reni e ai testicoli, in particolare in relazione all’esposizione al PFOA. La loro permanenza nell’organismo è una delle principali preoccupazioni: non essendo facilmente eliminabili, gli effetti negativi tendono ad accumularsi nel tempo, aumentando il rischio per la salute. 

La battaglia legale 

Una manifestazione di comitati e cittadini contro il silenzio delle istituzioni e le ricadute dello stabilimento produttivo Solvay a Spinetta Marengo

La vicenda giudiziaria legata alla contaminazione da PFAS a Spinetta Marengo ha un percorso che si snoda attraverso indagini e sentenze. Una delle prime e più significative tappe del processo si registra nel 2008, quando il Nucleo Operativo Ecologico (NOE) dei Carabinieri avvia un’indagine approfondita sullo stabilimento chimico di Spinetta Marengo, sotto la direzione della Procura di Alessandria. Gli investigatori iniziano a raccogliere evidenze sulla contaminazione ambientale causata dalle attività industriali del sito, in un lavoro meticoloso protrattosi per oltre un decennio. I risultati arrivano nel 2019, con la pronuncia di una condanna nei confronti dei vertici aziendali per il reato di disastro colposo innominato. Nello stesso anno, le indagini dell’ARPA Piemonte rivelano la costante presenza di inquinanti collegabili alle produzioni Solvay nelle acque di falda. I monitoraggi evidenziano l’inefficacia della barriera idraulica installata dall’azienda, teoricamente progettata per filtrare le acque contaminate e convogliarle a un apposito impianto di trattamento.

Il giugno 2020 segna una svolta nella vicenda con l’ingresso in campo del WWF Italia. L’associazione ambientalista, per voce dell’avvocato Vittorio Spallasso, presenta un esposto formale alle autorità giudiziarie: un’azione legale che catalizza l’attenzione dell’opinione pubblica su una problematica fino ad allora relegata principalmente agli ambiti tecnici e specialistici. Il riconoscimento del WWF come “persona offesa” nel procedimento rafforza ulteriormente il peso dell’iniziativa, conferendo all’organizzazione un ruolo formale che le consente di vigilare sull’accertamento delle responsabilità.

L’inchiesta accelera significativamente nel febbraio 2021, quando il NOE conduce una vasta operazione di perquisizione presso lo stabilimento. L’obiettivo è verificare direttamente le modalità di sversamento delle sostanze inquinanti, raccogliendo prove concrete sull’entità dell’inquinamento e sulle responsabilità dei soggetti coinvolti. Azioni che, nell’agosto 2023, portano le autorità giudiziarie a disporre il sequestro preventivo di due discariche di gessi appartenenti al gruppo Solvay. Secondo gli inquirenti, queste strutture — che avrebbero dovuto essere dismesse — erano state illegalmente rimesse in funzione. La Procura ipotizza che i bacini, contenenti scarti di lavorazione e residui della depurazione delle acque, siano privi di adeguate coperture protettive, permettendo alle sostanze tossiche di disperdersi nell’ambiente circostante attraverso le correnti d’aria. Supposizioni che, nel giugno 2024, si trasformano in atti concreti: la Provincia di Alessandria emette due diffide ufficiali nei confronti di Solvay, imponendo all’azienda di rispettare rigorosamente i limiti per gli scarichi di PFAS e ordinando la sospensione delle attività produttive per 30 giorni.

Parallelamente all’iter giudiziario, anche le istituzioni hanno cominciato, seppur tardivamente, a muoversi. L’ARPA, per esempio, ha implementato un geoportale che mappa dettagliatamente la presenza di queste sostanze nel territorio. La Regione Piemonte, in collaborazione con l’ASL di Alessandria, ha avviato nel 2022 il “Biomonitoraggio Integrato”, un progetto nato dalla necessità di valutare concretamente l’esposizione umana ai contaminanti attraverso l’analisi di alimenti di origine animale e vegetale. Iniziative necessarie, ma del tutto insufficienti a risolvere il problema in assenza di una reale bonifica.

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Gloria Ferrari

Laureata in Culture e Letterature del mondo moderno a Torino. Scrive di diritti umani e ambiente per diverse testate giornalistiche italiane. Collabora con L’Indipendente dal 2021.

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