domenica 2 Novembre 2025

Vivere insieme come alternativa: una giornata nella comunità di Vidàlia

A un’ottantina di chilometri da Barcellona sembra di essere in un altro mondo. La fermata dell’autobus, collocata in mezzo ai campi arsi dal sole, è immersa in un silenzio tangibile, interrotto dal saltuario sfrecciare delle automobili sull’autostrada adiacente. Un autobus che passa quattro volte al giorno è l’unico modo per raggiungere questo luogo con i mezzi pubblici, e il suo tragitto si inerpica lungo i paesini della Catalogna profonda, ripercorrendo il tragitto del fiume Llobregat, che scorre esattamente alle spalle del complesso industriale della famiglia Vidal

La Catalogna durante il XIX secolo visse una rapida ascesa del settore secondario e difatti è frequente incontrare i relitti di numerose fabbriche tessili, che, dalla seconda metà del Novecento, si videro costrette a chiudere, a causa dell’esternalizzazione della produzione. Quest’inarrestabile crisi portò non solo all’interruzione della filiera, ma anche al progressivo svuotamento delle colonie adiacenti alle fabbriche, ovvero di quei contesti urbani, spesso lontani dai comuni, abitati dalle persone impiegate nella fabbrica. Questo racconto accomuna moltissime “Cals”, termine catalano nato dalla contrazione del sostantivo “casa” e dell’articolo determinativo “El” che precedeva il nome della famiglia proprietaria, ma nel caso di Cal Vidal, la storia prosegue ancora oggi. 

I filari di alberi ombreggiano la strada che dall’uscita autostradale si immerge tra le vie della colonia e fin da subito è possibile osservare gli edifici dell’epoca, destinati all’intrattenimento della cittadinanza operaia: un bar, varie sale polivalenti, e, al centro, la chiesa. Ed è giusto dinanzi a questa che oggi si estendono le case abitate dalle persone che vivono in comunità.  

Dentro la cucina comune di Vidàlia

L’antica colonia, da anni quasi totalmente disabitata, nel 2005 venne acquistata dalla multinazionale statunitense Hines, la quale, attraverso il finanziamento di istituti bancari locali, diede inizio al progetto di trasformare l’intero spazio in un complesso turistico di lusso. Le difficoltà incontrate nella gestione e nella ristrutturazione del polo, si unirono all’esplosione della crisi del 2008, che portò all’abbandono del progetto da parte della multinazionale e al crollo delle banche che lo sostenevano. L’intera colonia, in stato di degrado strutturale, divenne l’occasione nel 2017 per un gruppo di persone, già alla ricerca di un luogo dove intraprendere il progetto di vivere in comunità, di stipulare un contratto di “masoveria” della durata di 75 anni sull’intera area. In cambio di lavoro e manutenzione la comunità ottenne così la concessione e la possibilità di dare il via a Vidàlia

«Attualmente siamo 24 persone adulte e 6 bambini» mi racconta Dom, mentre sediamo sui divani nella sala comune dell’edificio principale. «La nostra intenzione è crescere. Ci sono molte case vuote perché hanno bisogno di ristrutturazione». Difatti uno dei lavori principali della comunità è la ristrutturazione delle case, le quali, nonostante siano in buone condizioni, necessitano di lavori negli interni e negli impianti elettrici. Si crea così un circolo virtuoso, attraverso il quale più la comunità cresce, più le case possono essere ristrutturate in modo da poter ospitare ancor più persone.  

Membri della comunità pranzano nella piazza principale

Per portare a termine i lavori e fare fronte a tutte le spese, ogni membro della comunità paga una quota per contribuire al capitale sociale. I lavori manuali sono da chi partecipa, anche se ancora non fa formalmente parte della cooperativa: «Dopo due anni diventiamo membri a pieno diritto, fino a quel momento siamo in prova. Io, ad esempio, sto finendo il mio periodo di prova» mi spiega Dom, che, entrato a far parte del progetto due anni fa, sta per formalizzare il suo ingresso e si sente già pienamente integrato nel contesto: «sono molto coinvolto nel progetto, ma legalmente non sono ancora membro della cooperativa».  

Vidàlia riesce ad accedere ad alcuni bandi di finanziamento promossi dallo Stato spagnolo e dalla Comunità autonoma catalana; questi contribuiscono al raggiungimento degli obiettivi e al sostentamento del gruppo. Inoltre, la comunità si finanzia grazie all’affitto di alcuni spazi, destinati a eventi o a produzioni cinematografiche interessate a girare scene all’interno della colonia. Nonostante i fondi, il lavoro rimane totalmente autogestito e richiede l’impegno quotidiano da parte della collettività; in questa maniera il ritmo è più lento e in media si riescono a realizzare tre ristrutturazioni all’anno.

Sala artistica all’interno della colonia

«Noi ci basiamo sulla sociocrazia, un sistema che utilizzano molte comunità, in quanto unisce l’orizzontalità e alcuni vantaggi della verticalità». Per sociocrazia si intende che le decisioni avvengono all’interno della comunità, ma il grosso di queste viene preso autonomamente, nel caso in cui, ad esempio, alcuni membri nutrano una conoscenza più approfondita di alcune tematiche; quindi, queste persone a loro volta si raggruppano in piccoli circoli, i quali si occupano in maniera indipendente delle varie attività. Dom fa parte del gruppo che svolge l’accoglienza nelle visite, altri si occupano della gestione delle relazioni comunitarie, mentre altri ancora dell’organizzazione delle ristrutturazioni. Quando invece la comunità deve prendere una decisione di carattere eccezionale, come nel caso di spese straordinarie non previste dal preventivo iniziale del gruppo o la proposta di nuove normative, ci si incontra nel «circolo generale», un’assemblea che coinvolge tutti i sottogruppi di lavoro. Attraverso alcuni strumenti online, come Slack o Drive, Vidàlia riesce a mantenere lo sviluppo delle attività perfettamente organizzato. Oltre al contributo economico finalizzato al mantenimento del capitale sociale, ogni partecipante della comunità deve svolgere quindici ore di lavoro settimanale, nelle quali rientrano le riunioni, le assemblee e la gestione degli spazi comuni, come la pulizia e la cucina. 

«Una delle cose che ci identifica è l’internazionalità» sottolinea Dom. «Le lingue veicolari che adoperiamo sono l’inglese e il catalano», difatti ogni cartello all’interno di Vidàlia riporta le due lingue e durante le riunioni si adottano entrambe, con la possibilità di traduzione per chi ne ha bisogno. «Con l’utilizzo dell’inglese vogliamo essere aperti alle persone che vengono dall’estero, mentre con il catalano vogliamo preservare la tradizione. Abbiamo il diritto di parlare la lingua che vogliamo e il dovere di comprenderle entrambe». Per poter permettere il rispetto di questa regola, la comunità offre corsi di catalano tenuti dalle persone native, proponendo anche gruppi di lettura in lingua catalana, sempre attraverso l’autogestione.  

Le mani di Elsa e Dom mentre impastano la pizza

La proposta abitativa di Vidàlia è variegata, difatti le persone possono condividere gli spazi interni, i quali in alcuni casi devono essere abitati da un minimo di tre persone. In realtà ogni persona presenta le proprie necessità al circolo generale, il quale cerca di soddisfare le richieste di ognuna. Ogni casa presenta quindi una struttura peculiare, dove si possono incontrare nuclei familiari con figli, coppie, coinquilini e nelle case più piccole anche persone singole, occupando al momento una ventina di edifici. Inoltre, lo spazio è condiviso con alcune persone che hanno mantenuto il contratto iniziale, i cosiddetti «vicini storici», con i quali si è sviluppata una relazione sana e di mutua collaborazione, come nell’organizzazione delle feste di quartiere, di grigliate o, nel caso di bisogno, con l’aiuto nella manutenzione dei propri spazi. 

Per entrare a far parte della comunità è necessario passare un periodo iniziale con il fine di conoscere il gruppo e le rispettive dinamiche e, in caso in cui si volesse rimanere definitivamente, si formalizza l’ingresso con la compilazione di un formulario attraverso il quale è richiesto rispondere ad alcune domande «profonde» e da quel momento inizia un mese di prova, che, se trascorso positivamente si tramuta in un periodo di due anni nel quale la persona contribuisce attivamente alla cooperativa, per poi entrare a farne parte ufficialmente. Può succedere che per motivi di incompatibilità con il progetto o gli ideali comunitari, l’ingresso possa essere rifiutato, ma quest’evenienza si verifica di rado: «generalmente le persone si rendono conto autonomamente se non si trovano bene e scelgono quindi di allontanarsi. La gestione degli ingressi e delle uscite è molto complessa e spesso può risultare dolorosa».

Chiostro interno adibito a riunioni ed eventi

La campana dell’una e mezza, annuncia che il pranzo è pronto e interrompe momentaneamente la nostra chiacchierata. Ci si sposta, quindi, verso la cucina comune, nella quale ci si può servire attraverso un buffet vegetariano, composto da lenticchie, cetrioli, pomodori, carote, il tutto proveniente da cooperative agricole della zona, che, tramite un accordo, riforniscono a domicilio le persone interessate a consumare cibo locale. La cooperativa, nonostante disponga di un orto comunitario, non riesce, per il momento, ad autosostentarsi. Sceglie così di rifornirsi in maniera etica, nel rispetto della sostenibilità, evitando di consumare prodotti provenienti da produzioni multinazionali, alla cui filiera non è possibile risalire. La comunità non è strettamente vegetariana, nonostante l’acquisto della carne sia limitato, sia per ragioni etiche, che per motivazioni prettamente economiche. Nella piazza esterna adiacente alla prima linea di case, un lungo tavolo accoglie i membri del gruppo. Non è obbligatorio mangiare insieme, ma è sicuramente questo il momento migliore per radunarsi e fare una pausa dalle mansioni quotidiane. 

Dopo aver terminato il mio piatto, faccio la conoscenza di Jorge, un ragazzo colombiano seduto al mio fianco, arrivato più tardi rispetto agli altri, a causa del prolungarsi della mattinata di lavoro nella ristrutturazione di un appartamento. «Sono qui da un mese – mi racconta tra un boccone e l’altro – ormai questo è il mio unico stile di vita». Infatti, prima di raggiungere Vidàlia, Jorge ha vissuto per anni in una comunità in Messico e in Portogallo. Come lui, anche Julie, una ragazza francese, è arrivata da qualche settimana a Vidàlia, ma la sua permanenza si estenderà solo per poche settimane. «Sto cercando di conoscere la Spagna e intanto capisco cosa voglio fare», Julie è qui grazie a WWOOF, la World-Wide Opportunities on Organic Farms, un’organizzazione nata nel 1971, con l’obiettivo di mettere in contatto ecovillaggi e fattorie biologiche con le persone interessate a vivere un’esperienza lontana dal contesto cittadino, condividendo gli ideali di comunità ed ecosostenibilità.

Dopo pranzo alcune persone rimangono a chiacchierare, scherzando sulle attività da svolgere, tra le quali la Festa Major, un evento che caratterizza tutti i paesi e i quartieri delle città catalane, nelle quali si organizzano concerti, cene, rappresentazioni e attività per la cittadinanza. Anche Vidàlia ha la sua, che si celebra l’ultima domenica di luglio, dopo una fitta preparazione in collaborazione con le vicine storiche della colonia. 

Sala riunioni ed eventi

«Differentemente dalla famiglia o da una casa con coinquilini, la condivisione qui è più integrale, non convivi semplicemente, ma condividi spese, lavoro e valori, e soprattutto si tratta di una scelta intenzionale». Chi decide di entrare a far parte di Vidàlia, sceglie di intraprendere un piano di vita ben specifico, sostenibile ed eticamente impegnato. «Io volevo vivere in campagna, ho cercato vari contesti, alla fine sono arrivato qui e sono rimasto» mi confessa Dom, mentre mi accompagna tra i vari spazi della colonia. «Il luogo ha superato tutte le aspettative che potessi avere, soprattutto a livello umano». Come lui tante persone sono alla ricerca di un contesto simile, uno spazio dove poter sperimentare un’alternativa alla vita urbana, ma molto spesso è complicato trovare il luogo perfetto nel quale insediarsi definitivamente. Anche Anuar, uno dei fondatori del progetto, viene da altre esperienze comunitarie: «ci eravamo organizzati in un contesto simile nel sud della Catalogna, ma alla fine non siamo riusciti a ottenere la concessione dello spazio, abbiamo quindi cercato altrove e ci siamo imbattuti in questa colonia». 

In attesa di prendere l’autobus e salutare questo luogo, rimango in cucina a chiacchierare con Elsa, la mamma di Nati, una delle fondatrici del progetto. «Ogni anno cerco di venire qui a trovare mia figlia», mi racconta mentre maneggia l’impasto di una pizza. Elsa è argentina, vive a Córdoba: «Dopodomani purtroppo tornerò a casa, non ho voglia di andare via», mi confessa con un velo di rammarico; la pizza è un modo per suggellare quel momento: insegnando a impastare, chiedendo di preparare la salsa e i condimenti, Elsa riesce a coinvolgere tutto il gruppo, a contribuire senza essere formalmente parte della cooperativa o semplicemente a creare intorno alla semplicità un senso reale di comunità.

Sentiero che porta all’orto comunitario

Anche solo per riempire il vuoto dell’attesa del suo ritorno, Elsa mi dimostra cosa significhi fare parte di un luogo come questo. Rispondendo al bisogno umano di abitare, unito alla necessità di condividere, le realtà come Vidàlia ci invitano a riflettere sulla nostra condizione di abitanti urbani, costretti a ritmi incessanti, a contatto costante con l’inquinamento e con l’inconsapevolezza alimentare. Un ripensamento dell’intero sistema consumistico diventa così concreto, grazie alla collaborazione di entità vicine, all’interesse verso una partecipazione etica alla comunità o al semplice bisogno di vivere insieme. Il verso delle cicale mi accompagna lungo il tragitto alla fermata dell’autobus, intanto penso a quanto il loro rumore sia un’interessante alternativa ai clacson della città. 

[di Armando Negro]

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