giovedì 28 Marzo 2024

L’indomita resistenza indigena contro gli abusi del governo Bolsonaro

Cinque ore di barca dalla strada; uno slalom tra alberi caduti, detriti e tronchi con una barca ben stretta. Se no non si passa. È qui che resiste una delle aldeias (comunità) del popolo Noke Koi, nel profondo della selva amazzonica brasiliana, sul Rio Gregorio, municipio di Taruacà, nordest dello stato di Acre. Aldeia Toniya. Sono le terre Indigene Katukina/Karinawà, riconosciute dopo decenni di spostamenti forzati e fuga dai maderos di caucciù brasiliani e peruviani che tutt’oggi minacciano la sopravvivenza di numerosi popoli indigeni della zona. Per molti anni il popolo Noke Koi fu costretto a disperdersi; molte persone furono obbligate a lavorare nelle aziende degli invasori, e a centinaia morirono a causa di malattie per loro sconosciute. I Noke Koi quasi si estinsero. Siamo alla fine dell’800; eppure, la storia continua a ripetersi. La costruzione della strada tra Rio Branco e Cruzeiro do Sul, nel 1970, con la conseguente deforestazione di migliaia di ettari di foresta fu l’altra grande sfida che dovettero affrontare per sopravvivere.

Solo nel 1980 questo popolo ottenne un po’ di pace. Lottarono insieme agli Yawanawà, rivendicando la demarcazione delle proprie terre affinché non potessero più essere invase e distrutte dallo sfruttamento del legname e dagli allevamenti di bestiame, una delle cause principali della deforestazione dell’Amazzonia. Sono 192mila gli ettari di terra che la FUNAI (l’organo incaricato della demarcazione territoriale) ha riconosciuto a questo popolo; ma le minacce continuano. La deforestazione avanza, pagata dal commercio di legname e dai grandi produttori di carne, che necessitano sempre più ettari per i pascoli dei loro bovini da esportazione. Poca infatti della carne prodotta in Acre rimane in Brasile: la maggior parte viene esportata all’estero, verso Stati Uniti, Canada, ed Europa. Le piantagioni intensive di soia e palma, per produrre mangime animale e olio a basso costo, così come le centinaia di miniere legali e illegali sono tra le altre principali cause della distruzione di migliaia di ettari di foresta primaria ogni anno. Cifre che sono in aumento grazie al governo di Bolsonaro, ottimo alleato dei grandi produttori del mondo estrattivista. Un governo che per questo si é impegnato dall’inizio a limitare e cancellare i diritti degli indigeni, e che oggi sta anche mettendo in discussione la demarcazione territoriale di molte delle terre riconosciute ai nativi.

[Foto di Giulia Cillerai e Monica Cillerai, in esclusiva per L’Indipendente]
Ci sono almeno 305 gruppi etnici in Brasile, per un totale di 896.917 persone. Almeno 274 le lingue parlate. Più di 107 i gruppi indigeni che vivono ancora isolati nell’amazzonia brasiliana. Un’enorme ricchezza culturale, fatta di tradizioni e stili di vita che ancora rivendicano una simbiosi con la foresta. Molte comunità stanno soffrendo le conseguenze della deforestazione, delle attività minerarie, e numerose sono a rischio di scomparire. La distruzione della foresta e l’inquinamento dei fiumi e della terra infatti non permette semplicemente più di vivere come hanno sempre vissuto.

Il governo di Jair Bolsonaro ha reso quasi inesistenti le sanzioni contro gli abusi ambientali, e sotto il suo mandato gli incendi si sono moltiplicati enormemente, così come il commercio di legname e le miniere. Bolsonaro ha anche dichiarato che non avrebbe “concesso” un centimetro di più di terre indigene, e così ha fatto: zero territori sono stati riconosciuti negli ultimi 3 anni e mezzo. Anzi. Ora vogliono togliere il riconoscimento delle terre ancestrali già demarcate. Ad aprile più di 8000 indigeni si sono radunati a Brasilia, al “Acampamento Tierra Libre“, un campeggio che raduna rappresentanti di molti popoli indigeni, volto a organizzarsi e anche agire in difesa di loro stessi e della foresta. Per dieci giorni hanno manifestato contro gli attacchi ai popoli indigeni che prendono il nome di vari decreti legge, come la PL-490/2007, la PL-191/2020, la PL-2633 e altre.

Pacchetti di leggi assassine

[Foto di Giulia Cillerai e Monica Cillerai, in esclusiva per L’Indipendente]
I Noke Koi sono un popolo orgoglioso. Ricordano il passato, e temono per il futuro. “Noi vogliamo vivere in pace” dice Anur, uno degli anziani della comunità e rappresentante dell’Aldea Toniya. “Non vogliamo distruggere la foresta, perché pensiamo al futuro dei nostri figli, dei nostri nipoti. Vogliamo continuare a vivere come stiamo vivendo”. Per questo sono contrari all’agronegozio, ma praticano una economia di sussistenza. Per questo si oppongono alle attività minerarie e di commercio di legname. Perché significherebbero la fine del loro stile di vita, della loro maniera di vivere. Quindi la morte del loro popolo.

“Vogliamo lavorare, vogliamo fortificarci, vogliamo proteggere la natura, praticare i nostri usi, la nostra lingua, cucinare il nostro cibo tradizionale, cantare i nostri canti. Affinché il mondo porti il nostro messaggio, e ricordare che solo gli indigeni stanno davvero proteggendo la natura”. Nea W. è uno dei leader comunitari e master di una delle medicine ancestrali tuttora molto praticate, la Kambo. Cinque figli, vari nipoti, porta sempre addosso un simbolo della sua cultura, dai bracciali colorati alla fascia di perline che si mette in testa. Si batte come molti per salvaguardare l’esistenza dei popoli indigeni, la cui base di sopravvivenza è la foresta, l’acqua dei fiumi, gli animali. Tutto ciò che sta venendo danneggiato dal taglio di alberi e dall’inquinamento conseguente ai processi estrattivi. La demarcazione territoriale è uno strumento che aveva permesso, nonostante gli infiniti limiti – moltissime le popolazioni indigene che non hanno terre riconosciute, o che sono ben poche rispetto ai loro confini antecedenti – di impedire l’accesso alle multinazionali dell’estrazione e di potersi opporre legalmente ad attività di agronegozio e commercio di legname. Con gli enormi limiti di una legge che chi ha soldi e potere non vuole rispettare. Molto spesso infatti le Terre Indigene vengono violate, da attività “legali” o “illegali”, ma sempre coperte in un modo o nell’altro dal potere.

Ora però la nuova legge, la PL-490 approvata dalla Commissione Costituzione e Giustizia della Camera dei Deputati il 23 giugno 2021, prevede la revisione dell’usufrutto esclusivo delle terre da parte degli indios, e introduce una “prova di proprietà”. Ossia le popolazioni indigene dovrebbero riuscire a provare di essere in possesso di quei terreni prima del 5 ottobre 1988, giorno di promulgazione della Costituzione brasiliana. Altrimenti può scattarne la revoca. Inoltre consente la rioccupazione di aree destinate agli indigeni “per l’alterazione dei tratti culturali delle comunità o altri fattori causati dal passare del tempo”, dando spazio all’esplorazione dei terreni da parte dei magnate dell’agrobusiness e dell’estrattivismo. Si impone il divieto di espansione delle terre indigene già demarcate, che quindi non potranno più ampliarsi ma solo diminuire. Insieme alla PL-191 liberalizza le attività minerarie nei territori indigeni. Infine il testo di legge darebbe l’autorizzazione ad entrare nelle aree in cui abitano popolazione isolate, in nome di “motivi di pubblica utilità” non meglio specificati. Se prima vivere isolati era un diritto degli indigeni, ora si dà il via libera al contatto forzato, che porta tendenzialmente allo sterminio dei popoli prima non-contattati, in nome degli interessi della lobby chiamata “Bancada ruralista“, rappresentata da circa 200 deputati federali.

Fino a poco fa la legislazione brasiliana in materia di diritti indigeni era ammirata per il livello di protezione che dava ai nativi; oggi invece con i vari pacchetti di legge, se approvati definitivamente dall’iter legislativo, e con le continue minacce e gli omicidi di leaders indigeni, sta diventando uno dei paesi che più sta mettendo a rischio l’esistenza dei popoli indigeni e dell’intera foresta amazzonica. L’approvazione definitiva o la deroga di questi pacchetti di leggi dovrebbe essere dichiarata a breve.

La dichiarazione di guerra del governo ai popoli indigeni

Nell’ottobre 2018 si sono tenute nuove elezioni presidenziali e il 1° gennaio 2019 è entrato in carica Jair Bolsonaro, ex capitano dell’esercito brasiliano e candidato del campo evangelista.

Rappresentando il settore dell’agronegozio, i gruppi di interesse delle armi e il “campo” evangelista, il cosiddetto dictat BBBbala, buey y biblia (proiettili, buoi e bibbia), il governo di Jair Bolsonaro minaccia di far retrocedere i diritti costituzionali dei popoli indigeni del Brasile. Il Frente Parlamentario Agropecuario, il gruppo di maggioranza del Congresso, rappresenta gli interessi delle aziende e dei proprietari terrieri del Paese, un business che muove centinaia di milioni di dollari nella produzione agricola e zootecnica.

La principale minaccia per i popoli indigeni è la revoca dei processi di demarcazione delle terre indigene precedentemente avviati, indicando che le relazioni, le ordinanze dichiarative e le omologazioni delle terre indigene emesse in precedenza possono essere riviste e persino revocate in qualsiasi momento. Dà libero sfogo allo sfruttamento economico delle terre tradizionali dei popoli indigeni e quilombola, gli abitanti delle comunità nere, giustificando questo attacco ai popoli con l’accusa di essere i grandi ostacoli allo sviluppo del Paese.

Oltre a mettere in discussione un diritto acquisito, la Fondazione Nazionale Indiana (FUNAI), l’organo federale direttamente collegato alla demarcazione delle terre indigene, viene disattivata: il budget approvato nel 2018 è insufficiente a garantire le condizioni minime che permettono continuità ai suoi compiti. Il primo giorno del suo mandato, il 1° gennaio, il governo di Jair Bolsonaro ha approvato un decreto che assegna la responsabilità di certificare la protezione dei territori indigeni al Ministero dell’Agricoltura, che difende gli interessi commerciali che vogliono accedere a queste terre. Basta pensare che l’ex ministro di agricoltura del governo Temer, dal 2016 al 2019, era Blairo Maggi: il più grande produttore mondiale di soia, la stessa soia che è la principale causa di deforestazione del Mato Grosso.

Secondo uno studio pubblicato sul giornale scientifico Biological Conservation, sono 57 le leggi modificate da Bolsonaro solo nei primi due anni del suo mandato per indebolire la legislazione a protezione dell’ambiente. Nel 2020 le sanzioni per violazioni di tipo ambientale hanno visto un calo del 70%.

Oltre a soffrire per la mancanza di progressi nell’applicazione dei loro diritti, le popolazioni indigene sono attualmente oggetto di attacchi violenti e sistematici da parte dell’Unione Democratica dei Lavoratori Rurali (UDR) e delle compagnie transnazionali che hanno ottenuto concessioni per l’estrazione mineraria o il disboscamento.

In molti parlano di “genocidio legalizzato” verso i popoli non-contattati, bersaglio continuo di attacchi e omicidi da parte di aziende e estrattori di materie prime. Il governo fa di tutto per silenziare gli avvenimenti, arrivando ad affermare che molti dei popoli isolati non esistono. L’obbiettivo sembra quello di sterminarli nel silenzio, per avere campo libero alla devastazione della foresta. I conflitti nei primi due anni del governo di Bolsonaro sono aumentati del 40%.

E ora, la costruzione di un’autostrada amazzonica minaccia la foresta

[Foto di Giulia Cillerai e Monica Cillerai, in esclusiva per L’Indipendente]
Solo nei primi sei mesi – stagione dove solitamente la deforestazione rallenta – del 2022 sono andati distrutti 3988 km quadri di foresta amazzonica. Circa tre volte la superficie di Roma. Si tratta del valore più alto mai registrato per questo periodo dal 2008. “Praticamente il triplo del valore registrato nel 2017, ossia 1332 km quadrati” afferma il WWF. È il quarto anno consecutivo di deforestazione record.

Con i tre anni di governo di Bolsonaro, la crescita del tasso di deforestazione è stata di oltre il 75% rispetto al 2018. Un massacro che sta alimentando anche una quantità enorme di incendi. Il numero di roghi, spesso di natura dolosa, é aumentato di più del 24% negli ultimi anni. L’amazzonia brucia, e il motivo é sempre il profitto: cambiando la destinazione d’uso del suolo è possibile infatti convertire i terreni alle attività estrattive, agricole e di allevamento, costruendo infrastrutture là dove c’era foresta vergine. La depenalizzazione dei reati ambientali ha favorito la moltiplicazione degli incendi. L’attacco alla natura si è sicuramente intensificato con la presidenza di Bolsonaro, però ha origini più lontane; nel 2012 infatti, è stato il governo di centrosinistra di Dilma Rousseff ad approvare una riforma del codice forestale che ha allentato i divieti sull’abbattimento di alberi e ridotto le pene in caso di violazioni ambientali. Un grande favore ai proprietari terrieri e alle multinazionali, che hanno visto anche introdurre una sorta di amnistia per i condannati degli anni precedenti.

Il popolo Noke Koi è tornato a crescere negli ultimi anni, anche grazie alla protezione che gli ha dato la demarcazione territoriale delle loro terre. Vari altri popoli indigeni hanno scelto di tornare nell’isolamento per sopravvivere come hanno sempre fatto. Innumerevoli altri da pochi decenni stanno riprendendo i loro usi e costumi, dopo molti anni di spostamenti forzati, massacri e schiavitù.

Ora, sono nuovamente minacciati. Oltre i pacchetti di leggi assassine che stanno cercando di approvare, l’autorità per la protezione ambientale del Brasile ha concesso il 28 luglio di quest’anno un primo permesso per l’asfaltatura dell’autostrada BR-319. 870 chilometri di strada che collega Manaus a Porto Velho, strada costruita negli anni ’70 dalla dittatura militare e che si è deteriorata in fretta grazie alle condizioni climatiche della foresta pluviale. Ora il percorso è costituito per la maggior parte da terra battuta e per circa sei mesi all’anno la strada diventa una lunga striscia di fango impraticabile, tutelando di fatto questo pezzo di foresta dalle attività estrattive e di deforestazione. I due estremi della strada, gli unici asfaltati, sono circondati da terreni coltivati a soia e da allevamenti. Gli alberi, così come le terre indigene, sono un ricordo.

“Un giorno storico!” ha annunciato Marcelo Sampaio, ministro delle Infrastrutture brasiliano, celebrando così l’approvazione dei lavori. Un incubo invece per le popolazioni indigene e per chi si batte per la protezione della foresta. Il progetto comporterebbe un aumento di cinque volte della deforestazione da qui al 2030, permettendo l’accesso a innumerevoli piani estrattivi – sia minerari che petroliferi – e di agronegozio. E distruggendo così una delle ultime parti di foresta ancora vergine.

Le elezioni presidenziali che si terranno a ottobre in Brasile vedranno scontrarsi, tra gli altri, Lula e Bolsonaro, che tenta la rielezione. Ma il destino degli indigeni non dipende davvero da un cambio politico. Nonostante Lula dica di voler proteggere i popoli nativi, e si opponga – almeno in campagna elettorale – a numerosi dei decreti legge contro i popoli indigeni, ha così annunciato: “se vogliamo la crescita e lo sviluppo, sia nello stato di Rondônia che in Amazonas, l’autostrada è necessaria”. Insomma, la protezione della foresta non sarà davvero nelle urne elettorali.

“Gli esseri umani sono come gli alberi della foresta: nascono, crescono, si riproducono e muoiono.” Nea W. È seduto sotto un ceibo gigante, l’albero sacro della sua comunità. Nonostante mantenga sempre una voce calma, si percepisce la preoccupazione profonda. Se muore la foresta, moriamo anche noi.

“Tutto il mondo dovrebbe aiutarci a proteggere la foresta. Noi, popoli indigeni, stiamo lottando. Ma abbiamo bisogno di tutti. Aiutateci a fare arrivare questo messaggio alle persone degli altri paesi.”

[di Giulia Cillerai e Monica Cillerai]

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