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L’impatto della guerra sull’ambiente: una questione dimenticata dalla COP28

Nonostante l’importanza del tema, l’impatto della militarizzazione sull’ambiente e sul clima non è stato al centro dei colloqui svoltisi alla COP28 [1], ormai conclusa. Se da un lato alcune realtà hanno cercato di portare il tema al centro dell’attenzione, dall’altro questo è stato scarsamente tenuto in considerazione dai delegati dei Paesi presenti. Eppure, i due temi vanno di pari passo: guerra e ambiente sono due facce della stessa variegata medaglia che è il disastro globale. Il comparto bellico è uno dei maggiori fattori di impatto sull’ambiente. La cognizione cresce grazie all’azione di diversi movimenti, che stanno iniziando a trattare il problema della militarizzazione sotto questa lente, ma il cammino è ancora lungo e ora più che mai è il momento di sviscerare la faccenda e affrontare l’argomento come si dovrebbe.

Durante la Conferenza, alcune realtà [2] sono intervenute per sottolineare il ruolo determinante delle guerre nel cambiamento climatico e nel degrado ambientale. L’UNFCCC (United Nations Framework Convention on Climate Change) ha anche lanciato un appello [3] perchè questo venisse riconosciuto all’interno del Global Stocktake, il documento finale. Eppure, il risultato non è stato quello sperato. Dialogare faccia a faccia con i dati dell’impatto ecologico che il comparto bellico ha sull’ambiente è cosa tutt’altro che semplice. Secondo uno studio congiunto [4] portato avanti dall’Osservatorio sui Conflitti e l’Ambiente e dagli Scienziati per la Responsabilità Globale, le azioni militari corrisponderebbero a circa il 5,5% delle emissioni di gas serra; eppure, lo stesso report sottolinea come “le emissioni collegate al contributo bellico vanno oltre questo quadro”, poiché i dati raccolti sono spesso “volontari, assenti, incompleti o nascosti” e omettono elementi che risulterebbero determinanti per l’analisi, a tal punto da poter parlare di military emissions gap. La situazione che questi ci restituiscono, tuttavia, è tutt’altro che incoraggiante: la stessa analisi [5] sottolinea infatti come se i militari del mondo fossero una nazione, si classificherebbero appena fuori dal podio dei Paesi più inquinanti, portando a casa un lodevole quarto posto, e collocandosi sopra l’intera Russia.

La stessa guerra tra Russia e Ucraina ha portato innumerevoli danni all’ambiente [6] e rischia di causare ancora più disastri di quelli che abbiamo già visto. Quella dell’odierno conflitto nel Donbass è una esemplare testimonianza dei danni che la guerra può causare al territorio: dall’annichilimento delle aree naturali, al rilascio di zolfo e azoto nell’atmosfera, fino ad arrivare all’appiattimento dei terreni, alla deforestazione, all’inquinamento delle acque, alla dispersione di polveri e metalli, tutte questioni già ampiamente dibattute [7], ma mai affrontate di petto dalla comunità internazionale. Non solo la guerra, ma anche le esercitazioni possono causare ingenti danni all’ecosistema, e a tal proposito abbiamo un ottimo esempio casalingo con quanto successo quest’estate in Sardegna [8]. Il dato rilevante che emerge da tutto ciò è che non serve neanche che la tragedia della guerra si faccia carne perché il comparto bellico impatti consistentemente sull’ambiente. L’unico vero modo per ridurre i disastri ecologici e umanitari che l’insieme bellico porta con sé è quello di operare alla radice; non più guardare al modo in cui si fa la guerra, ma intaccare per via diretta quello che la guerra permette di farla: la produzione.

In questi anni si è parlato di agire direttamente sulla produzione stilando una lista di 27 principi in materia Protezione dell’Ambiente in Relazione ai Conflitti (da cui l’acronimo PERAC). Lo stesso testo [9] promosso dalla Commissione del Diritto Internazionale discute, nel primo principio, di misure di protezione dell’ambiente da attuare “prima, durante e dopo un conflitto armato”. Nonostante ciò, la maggior parte dei principi non sono solo molto generali (dopo tutto sono principi), ma primariamente legati alle operazioni militari in atto e al controllo delle zone conquistate. Si legge per esempio nel principio 15 che “sono proibiti attacchi contro l’ambiente in forma di rappresaglie”, o ancora, in quello seguente che è fortemente vietato il “saccheggio di risorse naturali”. Sono pochi i principi dedicati in maniera diretta alla produzione degli armamenti, e come se ciò non bastasse, questi promuovono norme piuttosto vaghe e generiche. Il decimo, nel particolare, sostiene che gli Stati debbano impegnarsi affinché le imprese operanti nel loro territorio operino “diligentemente”, e che esse si muovano per ottenere le risorse naturali in “maniera ecologicamente sostenibile”. I passi avanti, insomma, si sono fatti, ma siamo ancora lontani dall’intaccare in maniera sostanziale la produzione di armi e apparecchiature di natura bellica.

I possibili vantaggi che un graduale disarmo, o quanto meno un reinquadramento della macchina produttiva bellica secondo standard più sostenibili, porterebbe sono svariati, e non toccano il solo tema dell’ambiente. Qui in Italia, una delle patrie della produzione bellica mondiale, ne ha recentemente discusso Sbilanciamoci! [10] nella propria controfinanziaria [11]. Perché la guerra, oltre a essere lo strumento di risoluzione delle controversie preferito dai più, è anche un immenso business; e il fatto che alla COP28 l’argomento sia stato a malapena menzionato, non è che una conferma tanto di ciò, quanto dell’ipocrisia e del falso impegno – interamente di facciata [12] – che i vertici dei Paesi portano avanti nel contrasto al cambiamento climatico. Senza scadere nel più limpido dei greenwashing, ha invece iniziato a intavolare la discussione sull’impatto ecologico del comparto bellico la Earth Social Conference [13] nella giornata di giovedì 07 dicembre. Eppure, nonostante la consapevolezza stia crescendo, la strada è ancora tutta in salita. I problemi persistono e il tema dell’impatto ecologico del comparto bellico è ancora troppo poco considerato: è arrivato il momento di mettere sul tavolo politiche attive che considerino direttamente la produzione e intacchino il sistema guerra alla radice.

[di Dario Lucisano]