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Oggi in Italia è sciopero generale (ma nessun media ne parla)

«Abbassare le armi, alzare i salari», dietro questo slogan oggi, 26 maggio, centinaia di migliaia di lavoratori stanno scioperando in tutta Italia dando vita a cortei di protesta in 24 città [1] da nord a sud della Penisola. Si tratta dello sciopero generale proclamato dalla USB (Unione Sindacale di Base) «per la ripresa delle rivendicazioni dei lavoratori e delle lavoratrici in Italia dentro un’economia di guerra, sia quella in Ucraina sia quella scatenata dal governo contro le fasce più povere e deboli». L’Unione Sindacale di Base è il più importante tra i sindacati conflittuali in Italia, con circa un milione di iscritti. Nonostante questo, nessun media mainstream ha dato una copertura rilevante alla notizia.

L’USB con questa iniziativa ha deciso di scavalcare ancora una volta l’attendismo dei sindacati confederali (CGIL, CISL e UIL) i quali – nonostante i dati ISTAT raccontino [2] di una Italia dove i profitti aziendali continuano a crescere a discapito dei salari, e nonostante il governo Meloni non abbia intenzione di intraprendere alcuna azione in merito («gli stipendi devono crescere poco per non alimentare l’inflazione» ha scritto chiaramente [3] il Consiglio dei Ministri) – per ora si sono limitati a timide dichiarazioni di protesta e mobilitazioni locali. In un panorama profondamente diverso da quello delle altre grandi nazioni europee come la Francia (che è travolta da mesi dalle mobilitazioni popolari supportate dalla CGT, il principale sindacato del Paese) e la Germania (dove il più lungo sciopero generale degli ultimi trent’anni [4] ha portato ad aumenti di stipendio per i lavoratori).

L’Unione Sindacale di Base con lo sciopero generale punta a «rilanciare il conflitto sociale dal basso e in mezzo alle categorie che vivono sulla loro pelle la rabbia di avere difficoltà persino a fare la spesa» e «rimettere al centro della discussione il salario rubato da 30 anni». Le tre richieste immediate al governo sono: un aumento mensile immediato di 300 euro per tutti i lavoratori al fine di contrastare la perdita di potere d’acquisto generata dall’inflazione; l’abbassamento dell’età pensionabile a 62 anni con pensioni minime a mille euro; la diminuzione dell’orario di lavoro a 32 ore settimanali a parità di stipendio. Una richiesta, quest’ultima, che ripercorre anche l’onda di quanto avviene in Francia, dove le rivendicazioni non si limitano (come spesso riportato sui media) alla mera questione dell’età pensionabile ma chiedono una riforma complessiva del sistema di produzione [5], dove il progresso tecnologico e l’automazione robotica sia posta non solo al servizio delle grandi imprese (che possono così risparmiare sul costo del lavoro e moltiplicare i profitti), ma anche a beneficio dei cittadini comuni, per poter continuare a lavorare tutti e per meno ore.