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Val Susa come il Kurdistan: il delirante teorema della Digos di Torino

La Val di Susa come il Kurdistan: questo è lo scenario che dipingono gli agenti della Digos nel dossier presentato nell’ambito dell’inchiesta contro alcuni militanti del centro sociale Askatasuna, che ha visto 28 dei suoi membri rinviati a giudizio, 16 dei quali per il reato di associazione a delinquere. Un’immagine apocalittica che richiama scenari di guerra, volta a un condizionamento della percezione della lotta in Valle che difficilmente trova riscontro nella realtà dei fatti.

Gli antagonisti, spiega [1] il dossier, hanno fatto della Val di Susa “il principale terreno di scontro con lo Stato”, utilizzando “tecniche di guerriglia mutuate verosimilmente anche da altri territori di conflitto bellico (vedi il Kurdistan) e adattate al particolare contesto boschivo”. Le forze dell’ordine sarebbero state attaccate con “ordigni esplosivi” e strumenti di lancio la cui fattura per anni è sfuggita ai detective: “uno strumento artigianale equiparato a un’arma letale in grado di lanciare oggetti a lunga gittata a una velocità da proiettile”. Tale oggetto permetteva, soprattutto nel corso degli attacchi al cantiere avvenuti tra il 2011 e il 2015, di effettuare [2] “lanci di oggetti verso le forze di polizia di cui non si riusciva a capire da dove provenissero”. L’enigma circa il misterioso oggetto di probabile importazione dalle guerriglie in Medio Oriente è stato sciolto grazie all’intercettazione di una conversazione telefonica tra due militanti: si trattava di uno sparapatate.

D’altro canto, negli stralci riportati dai giornali le suddette “tecniche di guerriglia” – che sono solo “verosimilmente” mutuate da altri contesti, rappresentando quindi tale affermazione tutt’altro che un dato di fatto – non vengono riportate. Come fa notare [3] Davide Grasso, scrittore torinese ed ex combattente dell’Unità di Protezione Popolare curda (Ypg), “le tecniche ‘militari o di guerriglia’ che si usano in Kurdistan non possono essere paragonate alle forme di tafferuglio che hanno luogo nei contesti di piazza (o di bosco) europei”. La “gravissima ed estesa letalità delle guerre e delle guerriglie del Medio oriente” non può trovare “riscontro nelle piazze italiane o nei boschi della Val Susa, dove – per fortuna in rari casi – solo le ‘tattiche’ delle forze dell’ordine hanno causato morti o ci sono andate vicino (da Carlo Giuliani a Luca Abbà, tanto per capirci)”. Tuttavia, l’immaginario associato a tali contesti costituisce un bacino cui attingere per suggestionare la percezione di chi non conosce bene il contesto di tali lotte.

La retorica che tenta di criminalizzare i No TAV accompagna [4] da decenni la narrazione sul Movimento. La Val di Susa è una valle militarizzata, straziata dai cantieri, i cui abitanti da oltre 30 anni portano avanti una strenua lotta contro la realizzazione di una grande opera che andrebbe a devastare il territorio e della quale si fatica a comprendere l’utilità. Il cantiere di San Didero, soprannominato dai locali una “piccola Ilva” [5] e nei pressi del quale sabato scorso hanno avuto luogo alcuni tafferugli [6] tra militanti No TAV e polizia, è vuoto da oltre un anno, fatta eccezione per le decine di poliziotti che ne presidiano l’area giorno e notte. Le forze dell’ordine avevano occupato l’area ancora prima che qualcuno si aggiudicasse l’appalto per la costruzione dell’opera, e continuano ad occuparla anche ora che, di fatto, Sitaf ha ritirato il bando di gara da quasi tre mesi. Il contesto della lotta è un punto cruciale per comprendere cosa davvero stia accadendo in Val di Susa: curioso che i rapporti della polizia che formulano le accuse contro i militanti si siano dimenticati di citarlo.

[di Valeria Casolaro]